Storie di ordinario carcere

In galera per aver rubato due teli da bagno o per panico. Sono le storie di chi è finito "dentro", abbandonato e senza speranze.
Il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, ex democristiano, non conosceva, di certo, Roberto Pellicano. Stessa età, 39 anni ma due mondi completamenti diversi e distanti. Uno ministro, l’altro detenuto. Nessun collegamento oltre all’età. Eppure, a ben vedere, Alfano avrebbe dovuto conoscere o, almeno, interessarsi di Roberto Pellicano in quanto era stato, diciamo così, affidato al ministro della Giustizia.
Uno ministro, l’altro detenuto, quindi delinquente. Quindi, giustamente in carcere, messo nelle condizioni di non nuocere alla società. E per non nuocere più, Roberto, il 3 dicembre scorso, è morto nella sua cella del carcere dell’Ucciardone di Palermo. La causa della morte? Diciamo infarto. Roberto era tossicodipendente e sieropositivo da 12 anni. Ma cosa aveva fatto alla società questo pericolo pubblico? Aveva rubato 2 teli da mare, il 2 luglio scorso, sulla spiaggia di Capaci, vicino a Palermo per poi venderli ed acquistare la sua razione di droga. Il 13 luglio era stato processato per direttissima e aveva patteggiato una pena a 8 mesi di carcere.
Questa è una vicenda tipica delle carceri italiane. Neppure la più sorprendente. Casi come quello di Roberto sono centinaia. Dall’esterno si pensa che le carceri siano piene di assassini, squartatori, violentatori, persone che si sono macchiati di crimini terribili. Certo, ci sono anche questi. La stragrande maggioranza della popolazione carceraria, però, è formata da persone “ristrette” per piccoli furti, per motivi amministrativi, per vicende di droga o altri crimini di piccola entità che potrebbero benissimo scontare la loro pena al di fuori delle carceri.
La vicenda di Roberto è però interessante anche per un altro motivo. E’ la dimostrazione di come chi è senza potere, in questa società, deve sempre soccombere. Prestiamo attenzione alle date: il 13 luglio Roberto Pellicano è condannato a 8 mesi di detenzione. Lo stesso giorno il suo legale presenta la richiesta di arresti domiciliari. Dieci giorni dopo il perito, nominato dal Tribunale, scrive che Roberto può essere trasferito in ospedale. Due mesi più tardi, il 9 settembre, la direzione del carcere comunica che il detenuto “rinuncia a sottoporsi ad accertamenti clinici”. Il 10 settembre, il giorno dopo, il magistrato rigetta la richiesta dell’avvocato il quale ripresenta medesima richiesta il 16 settembre ribadendo che l’imputato è affetto da Hiv. Il giudice nomina un altro perito per nuovi accertamenti. Due mesi dopo, il 13 novembre, l’avvocato riceve la comunicazione del magistrato che i risultati della perizia tardano ad arrivare “nonostante i ripetuti solleciti”.
Intanto la sentenza diventa definitiva e, nell’attesa della perizia, Roberto Pellicani muore il 3 dicembre scorso. Se al posto di Roberto ci fosse stato un potente, la perizia sarebbe stata “sollecita”? Domanda retorica, quindi inutile.
Ed allora, forza, non facciamoci queste domande. Citiamo solo qualche caso degli ultimi mesi così da fare una specie di bilancio 2009 delle carceri italiane. Sono casi a cui giornali e televisioni non dedicano che pochissimo spazio, qualche “lancio” d’agenzia, qualche dato che ha come fonte le associazioni per i diritti dei detenuti. Vogliamo parlare di Stefano D.? Ma sì, parliamone perché Stefano è stato, finalmente, ricoverato all’ospedale Pertini di Roma. Stefano è un detenuto italiano alto più di 2 metri e pesa 230 chili. Romano, 38 anni, finirà di scontare la sua pena il 24 agosto 2011. In cella, Stefano, non può sdraiarsi e non può stare seduto sulla sedia perché non reggerebbe il suo peso. E’ tossicodipendente, ha problemi cardiaci, ulcere alle gambe. Dovrebbe fare lunghe passeggiate per aiutare la circolazione, ma in carcere è impossibile. Fa fatica ad entrare in cella, ha difficoltà ad utilizzare il gabinetto, ha problemi di convivenza con quanti sono costretti con lui a dividere la cella. Siamo sicuri che il carcere per lui era l’unica via percorribile?
Nel carcere minorile di Firenze, invece, si è impiccato con un lenzuolo nella doccia, un ragazzo di 17 anni. Veniva dal Marocco e il nome non è stato reso noto. Invisibile fra gli invisibili. Si sa che viveva ad Aulla, in provincia di Lucca dove lavorava come operaio. Il 3 agosto scorso è stato arrestato, mentre cercava di rubare degli orologi esposti in una vetrina della stazione ferroviaria. Solo 17 anni, impiccato, senza futuro e senza speranza. Il 72° dall’inizio dell’anno (in tutto nelle carceri sono morti, nel 2009, 175 persone) che si accompagna a quel ragazzo di 19 anni che si è tolto la vita nel luglio scorso nel minorile di Bari e a quell’altro ragazzo, sempre di 19 anni, cileno che si è tolto la vita il 10 settembre scorso nel carcere di Castrovillari. Su 65 suicidi, almeno 20 avevano meno di trent’anni e altri 20 avevano dai 31 ai 41 anni.
Ciro Ruffo, 35 anni, era detenuto nel carcere di Alessandria per reati di criminalità organizzata e da poco collaborava con i magistrati. Nel carcere era arrivato solo da poche ore, trasferito da altro istituto. Dichiara la moglie: “La direttrice mi ha comunicato che lo hanno trovato impiccato, ma non è vero. Ho visto il corpo all’obitorio del cimitero di Alessandria: ha il naso rotto, un livido sotto l’occhio destro, tanti altri lividi sulla schiena, sulla pancia, sulla faccia. Ha perso sangue dagli occhi e dalle orecchie. E’ stato pestato”.
In questo carcere ci sono stati, nel 2009, altri suicidi. Un carcere con 384 detenuti per una capienza massima di 263. Il 26 marzo scorso si è tolto la vita Franco Fuschi, 63 anni, ex agente segreto in carcere per traffico d’armi, mentre il 17 gennaio è morto Edward Ugwoj Osuagwu, 35 anni, nigeriano, in carcere per vicende di droga. Il 17 novembre, nel carcere di Palmi, è trovato cadavere Giovanni Lorusso, 41 anni. Proveniva, come Ciro Ruffo dal carcere di Ariano Irpino. Aveva un sacchetto di plastica infilato in testa e riempito di gas. Anche lui ha il corpo con strane ferite.
Pestaggio? Non è dato sapere. La stessa cosa che è avvenuta a Said Stati, marocchino da oltre 19 anni in Italia dove lavorava e pagava le tasse. Stati muore nel Cie (Centro d’Identificazione ed Espulsione) di Gradisca d’Isonzo nella notte fra il 28 e il 29 dicembre 2009. Said Stati viveva in provincia di Brescia, a Gavardo. Nel 2005, a seguito del terremoto che ha come epicentro Salò, perde la casa ma anche il lavoro: la fabbrica dove lavora, infatti, chiude e il ragazzo, con moglie e due figli piccoli, non riesce a trovare un’altra occupazione. In base alla famigerata legge 94/2009, il cosiddetto “pacchetto di sicurezza”, il ragazzo marocchino ha un permesso di soggiorno scaduto e quindi è clandestino. L’11 novembre è arrestato e condotto nel Cie di Gradisca dove gli consegnano un decreto d’espulsione. In Marocco non ha nessuno e non conosce nessuno. Tutta la sua famiglia, la madre e 6 fratelli, tutti sposati con figli, stanno in Italia. Inoltre i suoi figli, un bambino che frequenta la terza elementare e una bimba di tre anni, vogliono disperatamente ricongiungersi col padre. Poi la tragedia. Secondo l’organizzazione per i diritti umani EveryOne, il ragazzo è pestato con inaudita brutalità. Ora, in un letto d’ospedale, attende di essere deportato in Marocco. Colpevole? Di cosa?
Il 21 dicembre scorso, Pierpaolo Pranzato, 45 anni, muore. Il referto del medico legale parla di soffocamento da rigurgito di cibo. Di solito questo tipo di soffocamento avviene nei neonati; questa volta, però, ha colpito un uomo di 45 anni detenuto presso l’Opg di Aversa. Da piccolo aveva avuto due crisi cardiache che l’avevano privato per alcuni secondi di ossigeno al cervello con conseguenze sulla sua salute mentale. Si era dato all’alcol e alla droga e il 7 maggio 2008, in un solo giorno, era riuscito a commettere 12 tra reati e illeciti amministrativi. Al processo era stato giudicato non imputabile perché incapace d’intendere e volere e condannato a scontare 4 anni in un Ospedale psichiatrico giudiziario.
Ha scelto, invece, il giorno di Natale per impiccarsi con un lenzuolo la transessuale brasiliana Carlos S. Ancora un suicidio, ancora una volta in un Cie, quello di via Corelli, a Milano. Era stata fermata nei viali milanesi il 20 dicembre e portata in via Corelli. Mentre la maggior parte degli italiani è seduta a tavola a festeggiare, fra panettoni e spumanti, Carlos, 34 anni, ha deciso di farla finita con quella vita di discriminazioni. Non aveva nessuna colpa, non aveva ammazzato, non aveva rubato, non aveva chiuso la fabbrica e mandato gli operai sul lastrico. La sua colpa era solo quella di esistere, di volere, caparbiamente, essere donna.
Fiorenzo Sarchi aveva sempre fatto il ladro di auto e autoradio. Aveva 60 anni. Anni segnati dall’Aids conclamata. Nella mattina del 27 dicembre 2009, Sarchi sta male ed è trasportato, con un’ambulanza, all’ospedale di Aosta. Ci arriva cadavere. Chi ha l’Aids non dovrebbe stare in carcere. Lo dice la legge. Ma per Fiorenzo Sarchi quella legge non ha avuto valore.
E c’è anche chi va in galera per un attacco di panico. Ci va solo perché la sua provenienza “puzza” di droga. Un uomo di 32 anni, M.J.J., lo scorso maggio, mentre è in una stazione della metropolitana di Roma ha un attacco di panico. L’uomo ha avuto problemi di alcol, ed è separato dalla moglie ma lavora regolarmente all’aeroporto di Fiumicino ed ha un’esistenza “normale”. Poi, quella domenica, gli manca il respiro. Chiede aiuto al personale della metropolitana, sviene. Quando rinviene vede su di sé tanti visi di persone. La sua reazione è violenta. Aggredisce un operatore del 118 e ingaggia una colluttazione con una guardia giurata. La guardia, l’accusa di avergli rubato la pistola, particolare che M.J.J. nega decisamente. In ogni caso, è portato in carcere. Perché? Il 32enne è un colombiano di Calì e questo non gioca certo a suo favore. Ora, per sua fortuna, il magistrato, dopo 7 mesi di carcere, gli ha concesso gli arresti domiciliari.
Non è andata bene, invece, a Francesco Mastrogiovanni, maestro elementare, molto amato dai suoi scolari. Mentre è in macchina sbanda e tampona quattro macchine in sosta. Vigili urbani e carabinieri lo portano direttamente in manicomio. Forse perché è conosciuto come anarchico? Boh. Fatto sta che per quattro giorni lo legano al letto di contenzione. Muore per edema polmonare. Alla fine dell’anno è la volta di Uzoma Eneka il “negro”, testimone di un pestaggio avvenuto nei sotterranei del carcere di Teramo. Scompare lui e scompare anche la testimonianza del pestaggio. E come dimenticare i casi di Stefano Cucchi, di Aldo Branzino, mite falegname di Perugia, massacrato in carcere dove era stato portato per aver coltivato qualche pianta di marijuana?
Certo i casi di morte violenta e di suicidi sono molti di più. Spesso non si conoscono, sono occultati. “Tecnicamente” il detenuto che muore su un’autoambulanza non è catalogato come morto in carcere. E poi ci sono gli autolesionismi, bocche cucite con l’ago, lamette che infieriscono sul proprio corpo. Un modo anche questo, come il suicidio, per gridare la disperazione, per far accendere un riflettore sul carcere, sulla loro vicenda, per non essere dimenticati. Un po’ quello che fanno gli operai che hanno perso il proprio lavoro e sono costretti ad arrampicarsi sulle gru o sui tetti.
Questi episodi, che abbiamo raccontato, valgono più di decine e decine di discorsi vuoti pronunciati da politici arruffoni ed incompetenti. Parole in libertà che parlano di “sicurezza” e di garanzie per i cittadini. Parole vuote, pronunciate da chi non è mai andato a lavorare in una fabbrica o non conosce la realtà carceraria. Se andrà avanti in questo modo, nel 2010 ci saranno 10 mila detenuti in più (ogni mese entrano in carcere dalle 700 alle 800 persone). Oggi i detenuti sono 66 mila, 23 mila in più del consentito. Celle fatiscenti e sovraffollate abitate da un’umanità dolente, abbandonata a se stessa. Ore passate sdraiati nelle brande in compagnia solo dei propri pensieri. Sono queste le carceri italiane. Carceri con celle in cui si dovrebbe stare in tre, come a S. Maria Capua Vetere, e invece sono in dieci. Il governo propone da anni soluzioni miracolistiche, fra cui il “Piano carceri”, un piano per la creazione di 20 mila nuovi posti nelle carceri per una spesa che ci costerà un miliardo e mezzo di euro.
Eppure, ci potrebbe essere una soluzione ottima ed economica. L’alternativa al carcere per i reati di piccola entità. Questo, però, ai nostri politici non piace perché molti hanno fondato il loro successo elettorale sullo spauracchio della “sicurezza percepita”. D’altronde è molto più semplice mettere in galera un ragazzino per tentato furto o uno straniero senza un pezzo di carta che coloro che corrompono, truffano, quelli che fanno fallire le aziende e buttano in strada migliaia di famiglie. A questi, col tempo, gli potrebbero dedicare una via o un parco.
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