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Io, il carcere, la censura

Gli episodi avvenuti in alcune carceri italiane e la mia personale esperienza

di Adriano Todaro - mercoledì 23 aprile 2025 - 322 letture

Questa settimana non vi farò un elenco delle cose avvenute in campo editoriale. Tratterò un solo argomento, quello relativo a carcere e informazione con una esperienza personale. Leggo, infatti, mentre cerco le notizie in internet, che ai detenuti viene vietato di firmare gli articoli che pubblicano nei giornali realizzati all’interno degli istituti carcerari.

Lo denuncia una delle testate più importanti esistente nelle carceri italiane, Ristretti orizzonti che riporta uno scritto di Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale, già ministro di Grazia e Giustizia. Flick scrive che «Destano perplessità le voci che si colgono nell’ambiente penitenziario di tentativi e iniziative a livello locale e di interventi per imporre o vietare la sottoscrizione dei contributi di redattori detenuti alla ‘stampa’ nel carcere, o sulla lettura preventiva di quei contributi». Quindi, si tratta di censura, di una violazione del diritto delle persone. Episodi avvenuti nel carcere di Rebibbia, in quello di Lodi, in quelli di Ivrea e Trento.

Nel leggere questi episodi, la mia mente è tornata indietro nel tempo, quando facevo volontariato in carcere e, specificatamente, quando ero direttore responsabile di CarteBollate, periodico esistente ancora oggi nel secondo carcere di Milano, quello definito di Bollate proprio perché costruito a ridosso del comune di Bollate, pochi chilometri da Milano. A Bollate ci sono entrato nel 2003 per conto della Lila (Lega italiana lotta all’ Aids) con lo scopo e l’obiettivo di tenere un corso di giornalismo a un gruppo di detenuti che si erano messi in testa di creare un giornale, una pubblicazione per parlare dei loro problemi, così da creare un “ponte” con il mondo esterno. Ci dovevo restare qualche mese e, invece, ci sono restato per cinque anni. Una esperienza, quella del carcere, esaltante e proficua che mi ha dato la possibilità di crescere, di capire le dinamiche del carcere, appunto, di conoscere un mondo che sino a quando non lo tocchi con mano non lo conosci e non lo puoi capire.

Una realtà, quella dei giornali delle carceri, molto interessante. Negli anni in cui ero volontario in carcere, nei 206 istituti di pena italiani erano presenti più di 50 giornali pensati e scritti dai detenuti. Il giornale – a Bollate – era stato così creato. Si era formata una redazione tutta composta da detenuti e da qualche volontario esterno, un periodico che, numero dopo numero, diventava “grande”, dove si facevano inchieste, dove i detenuti-redattori non si piangevano addosso ma scrivevano di quello che avveniva anche all’esterno del carcere. Ricordo bene un’inchiesta sulla recidiva dove i detenuti-redattori si erano messi a spulciare i dati nazionali e veniva fuori che la diminuzione di un solo punto percentuale della recidiva, corrispondeva a un risparmio per la collettività di circa 51 milioni di euro l’anno. E poi l’inchiesta sul costo dei detenuti, con tabelle risultanti che in quegli anni ogni detenuto costava alla collettività 138 euro giornaliere. E poi tanto altro: dall’inchiesta sul cibo alle poesie perché la poesia dà la possibilità di “evadere”. E poi l’autofinanziamento per le spese del giornale (toner ecc.). E così un detenuto s’inventa le fotografie da inviare alle famiglie. La direzione acconsente e così quel detenuto con una macchinetta fotografica fotografa, a pagamento, quei detenuti che vogliono inviare alle famiglie lontane il loro ritratto, la prova che stanno bene.

Importanti anche gli incontri che, come redazione, abbiamo organizzato con personaggi esterni al carcere. Personalmente sono molto fiero di essere riuscito a portare in carcere, a parlare con i detenuti, un sopravvissuto di Mauthausen così da raccontare loro la sua tragica esperienza. Il carcere era diretto, in quegli anni, da una donna molto aperta e intelligente ma anche dura quando era necessario esserlo. Doveroso è però ricordare che il carcere di Bollate è uno delle carceri “modello”. In quel carcere, il detenuto ci arriva dopo un percorso dove ha dimostrato di potersi “redimere”. Se sgarri, la custodia attenuata nelle altre carceri non la trovi di certo. A Bollate, ad esempio, le celle rimanevano aperte a esclusione del momento della “conta”. A Bollate si studiava e si studia (diversi i laureati), si lavora e, incredibilmente, si fa volontariato nei vari settori esistenti all’interno di Bollate, ad esempio allo sportello giuridico o in biblioteca.

Tutto bene, dunque? Bollate resta, comunque, un carcere con le dinamiche dei luoghi di detenzione, con le contraddizioni esistenti in qualsiasi società. In questa piccola città-comunità abbiamo, dunque, iniziato a fare, con molta fatica, il periodico CarteBollate. I giornali delle carceri dipendevano quasi tutti dai direttori degli istituti di pena (a esclusione, in quel momento da Ristretti Orizzonti del carcere di Padova). Fin da subito noi abbiamo invece deciso di essere autonomi dalla direzione. CarteBollate è stato uno dei primi periodici registrato in Tribunale, con un giornalista come direttore iscritto all’Ordine. E io, oltre a essere il direttore ero anche il proprietario della testata.

Come dicevo, in carcere si riflettono le stesse dinamiche dell’esterno e pur avendo la fortuna di avere una direttrice aperta e intelligente, dopo un po’ di anni, nel 2007, c’è uno scontro fra la redazione e la direzione del carcere. Il tutto avviene per una poesia. C’è un detenuto a cui muore la madre. Il detenuto chiede al giudice di sorveglianza (nello specifico, una donna), di poter partecipare al funerale. Il permesso viene negato e un detenuto-redattore commenta con una poesia il diniego della magistrata. In redazione valutiamo che la poesia è ben scritta e non è offensiva e, quindi, per noi è da pubblicare. Non la pensa così la direttrice di Bollate che blocca la stampa del giornale. Quindi riunioni su riunioni, scazzi con la direzione. Insomma, tutto come fuori dal carcere quando un editore non vuole un giornale fatto in un certo modo. Come direttore-proprietario, non ho molto spazio di manovra. E così decido di dare le dimissioni. Collaboro ancora per qualche tempo poi, terminati gli impegni che avevo assunto precedentemente, vado via. Questo perché sono convinto che il giornalismo non deve avere mai una funzione notarile. Succede un fatto e il giornale lo riporta. No! Il giornale deve stimolare la ricerca, portare quelle notizie che gli altri non portano per pavidità o per convenienza. I giornali tutti, dalla grande testata, ai piccoli debbono essere critici, pungolo nei confronti del potere costituito, qualunque esso sia. A me non interessava fare il bollettino interno del ghetto. E non mi piaceva che i detenuti venissero considerati – da molti volontari – come “poverini” che avevano sbagliato, che bisognava scusarli, a prescindere. No. Se non si comportavano bene nel lavoro redazionale io dovevo “sgridarli”, come avviene in qualsiasi redazione.

E non è un caso che per due anni di seguito, nel 2005 e nel 2006, il “Gruppo Cronisti Lombardi Guido Vergani” ha premiato con il primo premio CarteBollate.

Una esperienza, quella del giornale del carcere, molta proficua che ricordo con nostalgia perché in quegli anni ho conosciuto persone disponibili, intelligenti, affabili. Con loro sono maturato, ho avuto la possibilità di conoscere un mondo che non conoscevo e che non avrei mai potuto conoscere se non entrando in carcere.


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