Cronaca di un suicidio annunciato: Alvaro e i suicidi nelle carceri

È una situazione altamente problematica che rischia di creare un effetto di “normalizzazione suicidaria”, ossia un effetto di assuefazione della società civile dinanzi al crescente numero di suicidi in carcere
Un anno fa, esattamente il 24 marzo 2024, un giovane nativo dell’Ecuador, Fabricio Nuñez Sanchez, si suicidava nella Casa circondariale “Lorusso e Cotugno” di Torino, dov’era detenuto per aver cercato di accoltellare il padre alla fine dell’agosto 2023. Era affetto da schizofrenia, quel giovane uomo, studente del sottoscritto e di altri insegnanti che, mercoledì 2 aprile, hanno deciso di ricordare la sua vita breve e sfortunata con un incontro presso l’istituto tecnico commerciale “Germano Sommeiller” di Torino, dove Alvaro aveva studiato e si era diplomato.
Grazie alla volontà delle professoresse Rosa Maria Parrinello ed Elisabetta Moro, la storia di Alvaro è stata rievocata nell’aula magna dell’istituto, davanti ad alcune classi del triennio, ai familiari del ragazzo morto suicida e ad altri ospiti, ex insegnanti o compagni di Alvaro, ad esempio, che hanno voluto presenziare all’incontro, come forma ulteriore di saluto allo studente scomparso. Non si è trattato di una pura cerimonia commemorativa, perché i docenti organizzatori hanno ritenuto fondamentale inquadrare quella singola vicenda all’interno di una cornice più ampia, per evitare una pura celebrazione fine a sé stessa e per porgere ai giovani discenti uno spaccato della complessità delle carceri, in generale, e del tema spinoso del disturbo psichico nelle nostre prigioni, in particolare. La questione delle carceri è largamente negletta, non fa audience, resta sullo sfondo, tra la nebbia, come se non fosse centrale, come se il trattamento dei detenuti non fosse, secondo quanto attribuito a Voltaire e ripreso da Dostoevskij, lo specchio di una civiltà. Per questo, si è cercato di dare rilievo al singolo caso, quello di Alvaro, e alla tragedia perenne del mondo carcerario, dentro il quale si è consumata l’esistenza del giovane ecuadoriano.
A parlare del tema sono state chiamate figure diverse per formazione, ma egualmente competenti in materia: la direttrice della Casa circondariale di Monza, Cosima Buccoliero, che, al tempo del suicidio di Alvaro, era direttrice dell’istituto torinese; l’avvocato Roberto Capra, penalista, e presidente della Camera penale “Vittorio Chiusano”, oltre che scrittore di alcuni volumi di narrativa; la dottoressa Lucrezia Carnero, criminologa, che conobbe Alvaro dopo il primo trattenimento in carcere, a seguito di un’aggressione alla madre; la dottoressa Martina Cacioppo, collaboratrice della dottoressa Monica Cristina Gallo, Garante delle persone private della libertà del Comune di Torino.
Dopo i saluti del Dirigente scolastico, il prof. Barbato Vetrano, è il sottoscritto a offrire un breve ricordo di Alvaro – allegato al presente articolo –, per fornire al pubblico alcune indicazioni che scrostassero via qualsiasi tentazione di associare l’ex studente all’immagine inappropriata del delinquente. Perché, sia detto qui com’è stato scritto nel pezzo che lo scorso anno è stato pubblicato su queste pagine, Fabricio o Alvaro, come variamente veniva chiamato, era un uomo delicato, gentile, lontano anni luce da qualsiasi forma di spietatezza dell’animo, se non la spinta omicidiaria derivatagli dalla grave patologia che lo ha soffocato. Ad aprire realmente l’incontro è la dottoressa Buccoliero, collegata in streaming. Offre subito un numero: 25 persone già suicidatesi in carcere nel corso di soli tre mesi; un numero alto, ma che nasconde una sofferenza più ampia, data dallo stesso ingresso in una prigione. E questo ingresso, che marca una rottura radicale con l’esterno, è già di per sé un problema, perché il penitenziario non è in grado, precisa la relatrice, di intercettare le fragilità del neo-detenuto, nonostante ci si provi, nonostante i protocolli e le persone preposte all’accoglienza. Le fragilità sfuggono, com’è sfuggita quella di Alvaro; a lui – continua la Buccoliero - «certamente non siamo stati in grado noi di far vedere una situazione di speranza, una prospettiva di speranza, ma purtroppo in questo il carcere è assolutamente deficitario, perché ha bisogno di tempo per poteri muovere».
Alvaro si è suicidato poco tempo dopo l’ingresso al “Lorusso e Cotugno”, non ha, forse, neanche avuto modo di comprendere il luogo in cui si trovava. Il carcere, ripete la relatrice, è più adatto per chi è detenuto da diverso tempo, da un certo tempo, perché con loro si riesce a costruire un percorso, un progetto individualizzato; chi entra in una galera «deve avere pazienza». Lo dice, la dottoressa Buccoliero, e sa che è difficile dall’esterno comprendere appieno questo richiamo alla pazienza, ma fa capire che i tempi strutturali dei penitenziari sono quelli e non ci sono alternative. Allora, spiega che a Torino – come attualmente sta facendo a Monza – aveva avviato il progetto dei peer supporters, già adottato, in precedenza, a Bollate: si tratta di detenuti che, debitamente formati, si fanno carico di accogliere i nuovi carcerati, di supportarli nel momento tra i più traumatici dell’esperienza custodialistica, ossia l’ingresso. «L’accoglienza viene fatta da detenuti che sono dei pari, quindi persone che, molto meglio di noi – molto meglio del direttore, dell’educatore, dello psicologo, dello psichiatra, del medico – possono raccontare la vita del carcere e la propria esperienza», aiutando il novello detenuto a superare alcune fasi problematiche o traumatiche della sua vita tra le sbarre.
A Torino, tuttavia, a differenza di Monza, il progetto del peer supporter ha stentato a dare frutti. Torino è un carcere particolare, precisa la Buccoliero, non solo ha una popolazione detenuta pari al doppio di quello lombardo, ma è una realtà in cui arrivano persone molto giovani, persone che hanno disturbi del comportamento, persone che vivono in grande difficoltà anche all’esterno. Il carcere è davvero lo specchio della società e la città di Torino «è una città che si è scoperta molto fragile» e tali fragilità si sono riversate nella casa circondariale del capoluogo di regione. L’anno in cui Alvaro si è tolto la vita, aggiunge, ci sono stati altri tre suicidi, avvenuti nella seconda metà del 2024, tra cui una persona entrata solo 24 o 48 ore prima, incarcerata per via del furto di un auricolare.
Il “Lorusso e Cotugno” è una realtà difficile, ammette la relatrice, una delle più difficili d’Italia. Nel corso degli anni, e segnatamente dopo il Covid, l’età media si è abbassata in modo significativo e ciò ha comportato un ripensamento anche delle strategie di intervento, in precedenza mirate su una popolazione carceraria dall’età media pari a 40 anni. Ma il punto è che il penitenziario non era il luogo in cui rinchiudere Alvaro o altre persone come lui, non lo è affatto; persone alle quali spetterebbe una struttura esterna. «Alvaro in carcere non avrebbe mai dovuto entrare», perché le strutture penitenziarie dovrebbero essere l’extrema ratio, lo spazio per contenere le situazioni più pericolose. Agli altri la prigione – soprattutto quando sovraffollata, come nel caso di Torino – non serve a nulla, non è in grado di andare incontro alle loro esigenze, di fornire servizi adeguati.
La dottoressa Buccoliero conclude così. È un intervento di denuncia del sistema, intiepidita appena dal ruolo istituzionale della relatrice, ma il messaggio è chiaro e viene ripreso, immediatamente dopo, dall’avvocato Capra, che esordisce spiegando alla platea che l’associazione che presiede – Camera penale – ha presentato una denuncia relativa al caso di Alvaro. E osserva che, per comprendere la sfortunata vicenda di quest’uomo, è necessario inquadrare il sistema carcere, per verificare dove il sistema non ha funzionato, «perché qualcosa non ha funzionato, questo è sicuro, e non è neanche vero che non ci siano delle colpe», che era lui che non stava bene. Normalmente, non importa a nessuno di queste persone, aggiunge Capra, questa è la verità, al massimo importa a un manipolo di persone che, ogni giorno, denunciano la condizione di assoluta precarietà nella quale versa il carcere, ma non hanno i cordoni della borsa, mentre chi potrebbe cambiare le cose non è intenzionato a farlo.
Eppure, osserva, le cose potrebbero essere cambiate, a partire dalla ricerca corretta dell’errore. Spiega agli ascoltatori che la sua esperienza professionale lo ha portato a dubitare delle semplificazioni, delle divisioni manichee, tipicamente adolescenziali, in bianco e nero; la vita è complessità ed è complessa, è difficile comprendere le ragioni dietro un atto, soprattutto quando questo atto viola le regole della società e ci porta dritti in galera. Ma è essenziale comprendere cosa muova un gesto, un comportamento ed è altrettanto essenziale domandarci se, a nostro giudizio, l’errore provenga da una responsabilità personale oppure dal contesto in cui si è vissuti. E, per fornire una testimonianza della relatività delle posizioni riguardo il tema della colpa o dell’errore, fa riferimento a una comunità aborigena in Australia nella quale, se qualcuno commette un reato, non si fa il processo alla persona, ma alla comunità, per capire dove e come la collettività ha sbagliato.
Capra intende portare a un ragionamento duttile i suoi uditori, chiede la loro partecipazione intellettiva, vuole disancorare il caso di Alvaro, e di altre sfortunate vittime di un certo sistema, da una lettura preconfezionata. Torna, quindi, sul giovane ecuadoriano, spiegando che il suo caso rientrava nella categoria dei reati in cui si affaccia il tema dell’incapacità di intendere e di volere e che, per tale ragione, Alvaro non doveva entrare in carcere, ma seguire un percorso differente. Non doveva entrarci, fra l’altro, anche per via di cos’è il carcere in Italia e qui, facendo riferimento all’analisi della dottoressa Buccoliero – a cui tributa stima e di cui sottolinea i riconoscimenti ricevuti per la sua illuminata gestione delle case di pena –, spiega che la direttrice non ha potuto spingere troppo in avanti la critica, mentre lui dichiara di voler criticare aspramente l’istituzione, «perché il sistema carcere è completamente da sventrare», da ripensare per intero. Il carcere è ancora quel luogo in cui devi stare come nel film “La maschera di ferro” o ne “Il conte di Montecristo”; vero, c’è l’ora d’aria, qualche cella aperta in più ogni tanto, «ma il concetto del posto dove stare è esattamente quello della caverna detentiva utilizzata da sempre». Una caverna in cui si finisce per una quantità di reati impossibili da quantificare, anche per reati che non sottendono alcun livello di pericolosità sociale, una caverna in cui «manca un profilo di dignità».
E le Buccoliero del caso non possono fare molto, anche se illuminate, anche se capaci di pensare a progetti alternativi e dignitosi, perché senza soldi non fai niente, non vai da nessuna parte. E se non hai mezzi, non sei in grado di garantire neanche una telefonata al detenuto, magari in apprensione per lo stato di salute di un familiare, perché la guardia che gestisce questa telefonata non ce l’hai, e la tensione cresce nelle carceri. E cresce anche perché se, come a Torino, tu hai un carcere che potrebbe ospitare 1000 detenuti e ne detieni, invece, 1400, come potrebbe diminuire la tensione e aumentare il livello di dignità riconosciuta alla persona privata della libertà? Celle con più detenuti, anziché uno come previsto, celle con bagni senza porta o con il cucinino dentro lo spazio del bagno. In questo non degno spazio è arrivato Alvaro, continua l’avvocato, e non doveva arrivarci, come aveva detto un giudice, perché incapace di intendere e di volere, ma un giudice “timido”, perché precisò che non avrebbe dovuto starci ma avrebbe dovuto farlo sino a che non si fosse trovato un posto in una Rems. Ma nelle Rems il posto non c’era; il finale è il suicidio di Alvaro, ma le responsabilità sono di un sistema allucinante.
L’intervento incisivo di Capra ribadisce, approfondendolo, quanto già osservato dalla dottoressa Buccoliero, né assume caratteri troppo diversi la riflessione della sociologa e criminologa, Lucrezia Carnero. La terza relatrice, dopo aver spiegato di aver assistito Alvaro durante la sua prima detenzione, fa una rapida rassegna del tema della malattia psichica e della sua contenzione, spaziando dagli antichi reclusori seicenteschi agli ospedali penali giudiziari (OPG), veri e propri luoghi di custodia rigida e anche violenta dei criminali affetti da disturbo psichico, per giungere sino alle Rems. Luoghi, questi ultimi, meno disumani degli OPG, ma anche del carcere, osserva la Carnero, dove l’operazione di disumanizzazione del detenuto è profonda, a partire dalle parole dell’amministrazione – la “domandina” per qualsiasi richiesta, come se si trattasse di bambini – e dove, non di rado, lo sforzo di affiancamento psicologico del carcerato è legato ai volontari che entrano nei penitenziari e non un consapevole investimento dell’amministrazione statale. Circa le carenze carcerarie e Alvaro, la Carnero racconta che il giovane ecuadoriano, durante la prima permanenza in prigione, era riuscito a superare il pudore di chiedere aiuto, aveva lucidamente compreso di aver bisogno di un supporto e aveva contattato il centro di salute mentale. Ma gli era stato risposto che «in quel momento non potevano aiutarlo».
Alvaro, dunque, viene fotografato in quell’istantanea, quella di un uomo che ha coscienza del proprio stato di salute, delle proprie angosce, ma non c’è tempo, non c’è spazio. La macchina burocratica e le inerzie del sistema carcerario e della società, in generale, stritolano quel giovane, come altri. Lo ribadisce l’ultimo intervento, quello della dottoressa Cacioppo, che precisa il ruolo di mediazione dell’ufficio della garante tra il carcere e la società esterna, del ruolo di monitoraggio della condizione dei detenuti tra le pareti di una cella, e sottolinea tutti i limiti delle strutture carcerarie già evidenziati dall’avvocato Capra. Precisa, inoltre, che la situazione è drammatica non solo all’ingresso del detenuto, ma anche in altri momenti, quale, ad esempio, il colloquio con il magistrato di sorveglianza, che ha il ruolo di definire eventuali misure alternative al carcere, eventuali permessi, un’eventuale riduzione della pena. Il potenziale disagio del detenuto è ampio, il disturbo psichico non è solo un dato precedente l’ingresso in una galera, ma, non di rado, si acuisce proprio fra quelle mura, per le particolari condizioni di vita, l’inevitabile disattenzione dell’istituzione, data dalla carenza di personale, la snervante situazione di attesa perenne che caratterizza tanti momenti della vita quotidiana.
È una situazione altamente problematica, sottolinea la relatrice, che rischia di creare un effetto di “normalizzazione suicidaria”, ossia un effetto di assuefazione della società civile dinanzi al crescente numero di suicidi in carcere. Una società civile lontana, poco sensibile al problema, alla vicenda di Alvaro o a quella, come racconta la dottoressa Cacioppo, di una persona suicidatasi in cella, mentre gli altri detenuti erano nell’ora d’aria, nel luglio dello stesso 2023. Un uomo affetto da disturbo psichiatrico e da tossicodipendenza, che aveva da poco incontrato il giudice di sorveglianza e mentre l’organo di garanzia era nel carcere.
L’ultima relatrice chiude leggendo un documento, una lettera composta dagli stralci di alcune missive che una giovane donna spedì alla madre, prima di suicidarsi anche lei, affetta anche da lei da una forma di disagio psichico. Una lettera che, tra gli altri drammatici passaggi, dati dallo sconforto e dalla solitudine, dai fantasmi che le si agitavano dentro, recita: «tutte le mie forze fisiche e psicologiche mi avevano abbandonato. Intorno a me solo il vuoto di una cella priva di oggetti e umanità e dentro di me il vuoto in cui ero sprofondata, trascinata dalla solitudine e dall’abbandono di chi invece doveva prendersi cura di me. Ero in trappola».
È lo stesso sconfinato senso di solitudine non compresa e di costrizione in cui dev’essersi trovato Alvaro. Lo stesso di tanti altri, morti nell’inerzia legale di un luogo pubblico, ma sottratto alla vista e alla conoscenza più dettagliata dei suoi piccoli orrori quotidiani, perché non disturbi troppo la nostra coscienza pudica.
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