Giro85
/ Movimento «Non chiedere mai a una madre
com'è suo figlio, dirà: è meraviglioso» documento proveniente da Carta - è
stato diffuso anche dal Brindisi Social Forum
Questa è la testimonianza della
madre di Carlo Giuliani, ucciso dallo Stato
a Genova il 20 di luglio del 2001, a Porto Alegre in occasione
della
intitolazione a suo figlio di un Campeggio. Fatelo girare
e chi non lo
avesse potuto leggere, è apparso su Carta della scorsa
settimana.
Discorso di Heidi Giuliani
Mi hanno detto che avrei dovuto parlare
di Carlo. Un mio vecchio collega
di scuola diceva:"non chiedete a una madre di parlarvi
dei propri figli, vi
dirà sempre che sono meravigliosi". Non dovete
chiedermi di parlare di
Carlo, era meraviglioso. Ho fatto la maestra per più
di trent'anni, ero una
maestra innamorata dei bambini. E tra tutti Carlo è
stato un bambino
particolarmente stimolante. Sempre pronto, sempre interessato.
Non lo dico
solo io, lo dicono le colleghe di scuola che me lo hanno
ricordato dopo
averlo riconosciuto nel giovane ucciso in piazza Alimonda.
Lo dicono tutti
quelli che lo hanno conosciuto. Molto sveglio e molto aperto,
Carlo ha
cominciato e terminato la scuola con un anno di anticipo.
Mai un litigio
con un compagno. Numerosi, invece, quelli con certi insegnanti,
non tutti. Alla
fine del liceo, dopo il primo anno di università,
ha detto: "non mi
interessa". Io non capivo: «perché sprechi
le tue doti, figlio?», dicevo.
«Cosa ne vuoi fare della tua vita?», gli domandavo.
Probabilmente Carlo non
sapeva ancora cosa volesse fare della propria vita. Come
molti ragazzi
della sua età, come molti che non hanno il problema
della sopravvivenza ma che sentono profondamente e con disagio
il problema della sopravvivenza degli altri, della sopravvivenza
degli uomini. «Prima voglio girare il mondo»,
mi
diceva. «Voglio cominciare dai paesi del sud. Sono
più caldi». Non si
riferiva al clima, parlava del cuore. «La gente del
sud è più calda»,
diceva, «ha più cuore». Non diceva: «la
gente del sud è più povera». Non ha
mai giudicato la ricchezza in termini di denari.
La nostra è sempre stata una famiglia piuttosto austera:
non ci è mai
mancato il necessario per vivere ma abbiamo avuto scarso
interesse per il
superfluo. Unica concessione, libri, musica e qualche viaggio
durante le
vacanze estive. Naturalmente di campeggio in campeggio.
Ai campeggi sono
legati i ricordi più sereni della nostra vita familiare.
In un campeggio
molto speciale, il vostro, ritrovo oggi il nome di mio figlio,
e per questo
vi sono enormemente grata. Pensavo che il nostro stile di
vita austero
sarebbe bastato a preservare i miei figli dalla corruzione
della ricchezza
e dello spreco. Noi abitiamo in uno di quei paesi dove la
gente ha
conquistato un certo benessere senza avere contemporaneamente
la capacità e gli strumenti per gestirlo. Molti soldi
ma scarsa cultura, scarsa capacità critica, scarsa
memoria del passato.
Carlo aveva, in uno dei suoi cassetti,
un piccolo manifesto. Diceva più
o meno cosi: «Il tuo cristo è giudeo, la tua
macchina è giapponese, la tua
pizza è italiana, la tua democrazia è greca,
il tuo caffè è brasiliano, le
tue vacanze sono turche, i tuoi numeri sono arabi, la tua
scrittura è
latina e tu rimproveri al tuo vicino di essere uno straniero».Da
quando esiste il
mondo, le conoscenze, le culture si mescolano e ogni tanto
cercano di
farcelo dimenticare. I nonni di Carlo provengono da terre
diverse, avevano
lingue, culture anche religioni diverse. Carlo lo sapeva
e non hai mai
pensato che questo fosse un male. Non ha mai avuto un solo
pensiero di
rifiuto nei confronti di chi non rientra negli schemi della
maggioranza. Al
contrario, faceva amicizia con tutti. Imparava l'arabo dai
magrebini dei
vicoli di Genova, gli stessi che ora passano in piazza Alimonda
e vi
lasciano un fiore o stendono la mano a sua madre quando
la incontrano. Era
un amico, mi dicono, era un uomo. In una società
che bada più all'apparenza
che alla sostanza, Carlo non badava a quello che si metteva
addosso: non
voleva abiti nuovi. Gli bastavano i pantaloni di una tuta
e una maglietta.
Lavorava un po' qui un po' là, giusto per guadagnare
il necessario, e non
gli interessava un lavoro stabile.
Io gli chiedevo: «cosa vuoi fare
della tua vita, figlio?». Era il suo
modo di reagire non alla sua famiglia [con noi è
sempre stato molto tenero] ma ad una società opulenta
che non condivideva, ad un malessere, questo sì
globale, che lo faceva soffrire. Aveva terminato da poco
il servizio civile e si era messo a lavorare con un amico:
«girerò il mondo», diceva. E ora siamo
noi, i suoi genitori, i suoi amici, che giriamo il mondo
per portare la sua testimonianza. La testimonianza di un
ragazzo che non voleva stare dalla parte dei privilegiati,
di quelli che hanno una casa, un lavoro, una pace. Perché
fino a quando ci saranno popoli che muoiono di sete e di
fame o che perdono le tracce delle proprie origini e della
propria cultura perché sottomessi alla
cultura dei forti, dovremo vergognarci anche di avere una
casa, un lavoro
una pace. Mio figlio mi ha dato una grande lezione