"Da zero a dieci" di Luciano
Ligabue. Ligabue è tra i migliori cantautori rock
italiani, e già un paio di anni fa aveva fatto un
film decisamente buono, "Radio Freccia". All'epoca
aveva promesso: niente più film, fare film non è
il mio mestiere. Invece ne ha fatto un altro. Poteva essere
un flop, i secondi film di solito sono sempre una caduta,
invece il film regge abbastanza bene. Non un film eccezionale,
ma un buon B-movie, diretto e interpretato molto bene (Ligabue
per fortuna ci risparmia la sua presenza di star, dà
spazio ad attori e personaggi).
Un gruppo di 35enni torna a Rimini
dopo che c'era stato vent'anni prima. La veridicità
e semplicità dei personaggi, ingenui, patetici, riscattati
dalla sanguignità carezzevole emiliana stempera i
toni da "Grande freddo" di provincia della pellicola.
I quattro protagonisti hanno cinque giorni per godere il
loro "grande giorno", e Libero - indimenticabile
protagonista delle vicenda - organizza per ognuno di loro
un giorno di trionfo (=il giorno del "compleanno").
Così il bluesman emiliano può suonare davanti
a un pubblico vero, il gay sfila travestito su un carro
trainato da cavalli bianchi per le vie superaffollate di
Rimini, l'operaio Baygon che vanta il proprio machismo ha
la sua serata con quattro donne, Libero si spoglia e corre
nudo per la via principale di Rimini. Nella seconda parte
del film alcuni dei nodi della storia vengono alla luce:
il perché vent'anni prima il gruppetto era improvvisamente
sparito piantando le ragazze che avevano conosciuto quella
volta. Il loro amico Mirco morto alla stazione di Bologna,
sabato 2 agosto: perché chi mise quella bomba sapeva
che la stazione quel giorno era strapiena, con tutta la
gente che si spostava per andare proprio a Rimini.
Ecco che improvvisamente il film assume
un'altra dimensione e spessore, e il motivo gratuito del
ritorno di questi "ragazzi / peter pan" acquista
motivo, spessore, significato laceranti. Ed è la
lacerazione profonda, che non può essere dimenticata,
di ciò che i fascisti hanno fatto alla nostra gente.
Un tema, questo, che poteva essere narrato in maniera goffa,
retorica, qualunquistica, e che invece Ligabue riesce a
toccare in maniera sobria e senza cadute di stile. Tra le
migliori scene del film: i personaggi seduti nella piazza
di San Marco di una Venezia in miniatura a Rimini, che dicono
in poche parole chi sono e quali sono le cose migliori della
propria vita, dando un voto a se stessi. La ragazza lesbica
che dice di quando ha picchiato suo padre e ne ha conquistato
il rispetto, la rossa che dice del proprio cancro e di come
questo abbia dato una svolta positiva alla propria vita,
per Libero il sogno che la politica potesse cambiare il
mondo e renderlo migliore. Libero è la vittima sacrificale
di questo film, destinato a morire per permettere agli altri
di sopravvivere e dare una maturazione alla propria vita.
Anche qui un "beau geste", la morte in corsa alla
guida di una macchina. La provincia italica che concentra
tutta se stessa nell'unicità di quel beau geste vagheggiato
quale atto luminoso e decisivo, che fissi la propria esistenza
una volta per tutte.
Chi ha ragione, Libero che decide di fermare la propria
esistenza, o Giove a cui è concesso di continuare
questa esistenza fino in fondo? Il film dà diritto
di cittadinanza a entrambi - è una delle virtù
di questo film "politicamente corretto" (anche
se non eccessivamente sdolcinato).
Pensare oggi che le diversità
abbiano diritto di cittadinanza nella ricchezza collettiva
è un pensiero eversivo, e il film di Ligabue - in
cui tutto sembra di prammatica: i quattro con i loro soprannomi,
le crisi della mezz'età, persino la voglia di vivere
e di trovare un senso nella propria mediocrità -
sa essere anche questo nelle sue vesti apparentemente marginali,
"minori", nelle sue cadenze dialettali della provincia
modenese.