Giro81
/ Movimento Quanto costa alla Sicilia il "miracolo
economico"? Mettiamo online un articolo apparso sull'edizione
di Repubblica di Palermo, che in Sicilia non è possibile
leggere al di fuori di Palermo, pensando di fare opera utile
di divulgazione e riflessione. A firma di Luigi Cavallaro,
il 27 dicembre 2001.
Il varo della Finanziaria rende sempre più
chiaro che la politica economica del governo nazionale si
muove sulle orme di quel mix di interventi che, all'indomani
della fine del secondo conflitto mondiale, seguirono alla
scelta di abbandonare la politica protezionista del regime
fascista e di aprire l'economia italiana agli scambi con
l'estero. Un programma come quello appena approvato, che
punta al controllo dell'inflazione, al
ridimensionamento della spesa pubblica per le esigenze sociali
(per tenere fede al Patto di stabilità), alla riduzione
della pressione fiscale, al contenimento del costo del lavoro
e a un programma di «grandi opere» infrastrutturali
per il Mezzogiorno (Ponte sullo Stretto in primo luogo),
affida in modo inequivocabile il rilancio della nostra economia
alla ripresa della domanda estera (segnatamente quella statunitense),
così come auspicato dalla Banca d'Italia nelle "Considerazioni
finali" presentate il 31 maggio scorso.
Non è dunque un caso che si sia invocato
e si invochi un nuovo «miracolo economico» (e
magari è proprio per questo motivo che il presidente
della Regione Cuffaro ha affidato la Sicilia alla «Bedda
Matri»).
Molti dimenticano, però, che quel
famoso «miracolo» ebbe due facce: tra il 1955
e il 1963, infatti, si verificò non soltanto il conseguimento
di tre obiettivi tradizionalmente ritenuti incompatibili
(aumento degli investimenti, stabilità monetaria
ed equilibrio della bilancia dei pagamenti), ma anche un
grave peggioramento della distribuzione del reddito, il
boom delle emigrazioni, l'acuirsi del divario tra la struttura
produttiva del Nord e quella del Mezzogiorno, la congestione
delle grandi città e in seno a queste il consolidamento
del potere mafioso.
Uno scherzo della storia? Non proprio. Come
hanno spiegato molti economisti, era lo stesso meccanismo
dello sviluppo fondato sul traino delle esportazioni a creare
le premesse perché la crescita avvenisse in modo
distorto. Per intercettare la domanda estera, infatti, le
imprese italiane avevano bisogno di specializzarsi nelle
produzioni a tecnologia avanzata, caratterizzate da un elevato
grado di meccanizzazione, e ciò impedì loro
di riassorbire l'elevata disoccupazione generata dalla contemporanea
espulsione
di forzalavoro dall'agricoltura: basti pensare che, tra
il 1958 e il 1963, mentre 1.679.000 lavoratori venivano
cacciati dalle campagne e il terziario stabilizzava la propria
quota sul totale dell'occupazione, l'industria (edilizia
compresa) riuscì a creare meno di un milione di posti
di lavoro, nonostante le esportazioni crescessero a un tasso
medio di poco inferiore al 18 per cento e gli investimenti
registrassero la crescita più elevata dal dopoguerra
(+12 per cento all'anno). Ne venne una stagnazione dei salari
a
tutto vantaggio dei profitti e la quota dei redditi da lavoro
sul valore
aggiunto dell'industria manifatturiera scese, tra il 1951
e il 1963, di
quasi dieci punti percentuali, attestandosi a poco più
del 60 per cento.
Al Sud, intanto, l'intervento pubblico, centrato
essenzialmente (almeno fino al 1957) sulle grandi opere
infrastrutturali, contribuiva assai poco a creare occasioni
di lavoro stabile per una manodopera che sempre più
raramente riusciva a trovare di che vivere nelle campagne
(solo in Sicilia gli occupati in agricoltura scesero dai
760.000 del 1951 ai 610.000 del 1961). La conseguenza fu
un massiccio flusso di migrazioni interne e verso l'estero:
tra il 1958 e il 1963 i trasferimenti di residenza dal Mezzogiorno
(in particolare Campania, Puglia e Sicilia) verso il «triangolo
industriale»
del Centro Nord furono circa 900.000, con una punta massima
di 240.000 nel 1961. Logica conseguenza fu un inurbamento
selvaggio, che interessò non soltanto le città
del Centro Nord, ma anche quelle meridionali, dove le più
ignobili speculazioni edilizie, insieme alla manna degli
appalti pubblici, costituirono nuove occasioni di ricchezza
per la mafia, piazzatasi nel frattempo a «proteggere»
gli snodi di diffusione del potere e del denaro pubblico.
Si può obiettare che le condizioni
del nostro paese non sono più quelle del dopoguerra
e che, di conseguenza, non è affatto detto che non
si possano realizzare gli aspetti positivi del «miracolo»,
evitando quelli negativi. Ma si può controobiettare
che ci sono numerosi fatti che inducono a pensare il contrario.
In primo luogo, la posizione della nostra economia in seno
alla divisione internazionale del lavoro è segnata
dalla specializzazione in settori relativamente tradizionali
(tessile, abbigliamento, cuoio, calzature, automobili, prodotti
alimentari) e ciò la rende particolarmente esposta
alla concorrenza dei paesi di nuova industrializzazione,
che possono contare sul vantaggio competitivo di costi inferiori
dovuti a salari irrisori; il mantenimento delle quote di
domanda postula, di conseguenza, un rigoroso controllo del
costo del lavoro (di qui l'appello ossessivo alla «flessibilità»)
e l'approfondimento dei processi di decentramento produttivo
avviati a partire dagli anni Ottanta. Sembra illusorio,
perciò, sperare in tassi di crescita del prodotto
che possano assicurare il riassorbimento di una disoccupazione
che, specie al Sud, attinge livelli veramente patologici,
a meno che non si estendano ulteriormente le forme di impiego
precario, discontinuo e scarsamente remunerato.
In secondo luogo, la difficoltà di
trovare un'occupazione a decenti livelli di reddito rappresenta
la causa prima della ripresa di un consistente flusso migratorio
(221.000 trasferiti dal Sud al Centro Nord negli ultimi
tre anni, 72.000 solo l'anno scorso), che qui c'è
senz'altro una differenza rispetto agli anni Cinquanta coinvolge
soprattutto i giovani di ceto culturale e sociale medioalto.
E contraendosi ulteriormente la spesa socioassistenziale,
che nel Mezzogiorno funge assai spesso da paracadute contro
la povertà (basti pensare all'enorme contenzioso
sulle invalidità civili), è ragionevole prevedere
che la gran massa dei disoccupati siciliani e meridionali
in genere finirà con l'affollarsi intorno ai cantieri
per la realizzazione delle «grandi opere» promesse
dal governo, spopolando ulteriormente i centri dell'interno.
È proprio qui, peraltro, che un ruolo
rilevante può giocare la mafia.
Dovrebbe essere ormai chiaro che la strategia di «inabissamento»
posta in essere all'indomani delle stragi del 1992-93 non
ha nulla a che fare con la fine della sua capacità
di condizionare la società meridionale e quella siciliana
in particolare: caso mai, è vero il contrario, visto
che le azioni più eclatanti dalla strage di Portella
della Ginestra a quelle di Capaci e via D'Amelio sono coincise
con la messa in discussione degli assetti di potere che
l'avevano vista indiscussa protagonista. C'è molto
da fare, invece, nello scenario che si va ad aprire: c'è
da ripartire in una miriade di subappalti l'imponente flusso
di denaro pubblico che servirà a realizzare le suddette
grandi opere; c'è da «rimodulare» piani
regolatori, piani territoriali, piani paesistici e quant'altro
(la sanatoria discutibilmente passata nell'art. 71 della
Finanziaria e quella proposta nella legge regionale di riordino
delle coste in discussione all'Ars lo testimoniano oltre
ogni dubbio); c'è da regolare l'afflusso di manodopera
scarsamente qualificata nei cantieri, evitandone la sindacalizzazione
e assicurando che si accontenti di bassi salari e condizioni
contrattuali deteriori rispetto a quelle dei contratti collettivi
nazionali; soprattutto, c'è da organizzare un consenso
politicamente duraturo, che possa far digerire anche quelle
«misure coraggiose» (cioè impopolari)
invocate da Confindustria e che si annunciano nelle deleghe
richieste dal governo in materia di licenziamenti e previdenza
sociale.
L'agenda, ovviamente, è approssimata
per difetto. Serve comunque a mettere in evidenza che gli
anni a venire saranno decisivi per misurare la qualità
della nostra borghesia: per capire, cioè, se essa
continuerà a ricercare attivamente la «protezione»
mafiosa, come ha fatto negli anni d'oro del sacco di Palermo,
o sarà finalmente capace di affrancarsene. E in quest'ottica,
bisogna pur dirlo, provvedimenti legislativi come quelli
concernenti il falso in bilancio, le rogatorie internazionali,
il rientro dei capitali illegalmente esportati, specie se
uniti a certe affermazioni sulla presunta necessità
di dover «convivere» con la mafia o al sistematico
attacco condotto nei confronti della magistratura, non lasciano
certo ben sperare.