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Pazzo come Van Gogh

Delirio fisico nel romanzo di Piergiorgio Leaci, “Pazzo come Van Gogh”, pubblicato da Prospettiva editrice (Civitavecchia, 2003).

di Piero Buscemi - mercoledì 23 novembre 2005 - 4741 letture

Perdersi dentro scantinati di solitudine, inseguendo gradini rubati alla vita che non conducono a niente. E scenderli perché questo, è quello che hai sempre voluto. Questa sensazione di “pietre rotolanti” senza soste apparenti, attente a non sfiorarsi mai, che si può avvertire leggendo il libro di Leaci, fino all’ultima pagina.

Se si ha il coraggio di farlo. Perché di coraggio, si ha bisogno nell’affrontare “Pazzo come Van Gogh”, l’ultimo lavoro letterario di questo scrittore leccese. Ed avresti già voglia, sin dalla prima pagina, di incontrarlo e sbattergli in faccia: “Ehi amico, ma mi stai prendendo per il culo?” prima ancora di proseguire la lettura, che più di una volta, ti tenta a stracciare le pagine, per paura di avere una seconda occasione, per rileggerle.

Perché leggendole, stai davanti ad una realtà mai così “vera”. Troppo vera. Troppo, da scegliere di accettarla. Leaci te la descrive con le sue parole alcolizzate, con un retrogusto di liquido seminale che non dà la vita, ma se potesse, la distruggerebbe.

Notti da sbornie da smaltire, bagnate tra le braccia di una donna della quale non ricordi il nome. Perché non glielo hai mai chiesto. Capelli biondi e occhi azzurri da dimenticare in una Danimarca che è luogo, spazio, tempo. Che è mondo che racchiudi in versi ubriacati di tristezza, tra un momento e l’altro di falsa lucidità e la voglia di affogarlo dentro vino andato a male, sesso che ti affligge e il tuo bisogno assurdo di conservazione.

Perché scalfendo le parole dure del romanzo di Leaci, puoi illuderti di vivere un delirio distruttivo e credere che, tu non sarai mai come i “perduti” personaggi che incontri nella narrazione. E scoprire, continuando la lettura, di essere da sempre, uno di loro.

Personaggi. Un attributo troppo riduttivo per poter comprenderli. Troppo insoliti per provare a farlo. Personaggi vestiti da protagonisti. Forse, solo di sé stessi. O di una storia, che non è una storia, ma una fuga.

Non del Leaci-personaggio che ce la racconta in poco più di centocinquanta pagine, descrivendoci giovani danesi con i quali, smarrirsi per sempre o con i quali, sporcarsi di umanità di diverso sapore.

Una fuga, non del Leaci-scrittore, ma di chi vuole convincerci che è ancora possibile vivere una “normalità” di tappe evolutive che ci fanno crescere, sognare, cambiare. Bere, fumare, scopare. Vivere.

Una fuga di chi crede di poter esaltare la propria vita e di giudicare quella degli altri. Quella degli spettri che scivolano tra le parole “vomitate” da Leaci su pagine pronte ad accoglierlo e ad accoglierci. Orgoglioso del verdetto che, una società di “normali” gli ha partorito da tempo: Pazzo.

Si, come Van Gogh!


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