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Il dottor O’Connor e l’ossessione dell’inconscio

La foresta della notte / di Djuna Barnes ; traduzione di Giulia Arborio Mella ; introduzione di Thomas Stearns Eliot. – Milano : Adelphi, 1983-1994. – 176 pp. - (Gli Adelphi). - ISBN ‎ 978-88-459-1079-1.

di Angelo Guida - giovedì 17 aprile 2025 - 490 letture

Djuna Barnes (Cornwall-on-Hudson, 12 giugno 1892 – New York, 18 giugno 1982) è da annoverarsi nella folta schiera di artisti americani expat che negli anni ’20 trovarono rifugio a Parigi. Tra questi, è sicuramente una delle figure meno note al grande pubblico, soprattutto se paragonata a personaggi del calibro di Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald. Ritornata negli Stati Uniti scelse di vivere, anche a causa dell’alcolismo, in quasi totale isolamento per il resto dell’esistenza. Terminò la sua vita da reclusa in un modesto appartamento in Patchin Place, nel Greenwich Village.

Eccentrica e sessualmente polimorfa, femminista ante litteram, generò uno dei capolavori “minori” della letteratura americana degli anni ‘30, Nightwood (1936); Bosco di notte secondo la traduzione di Filippo Donini (1968), La foresta della notte secondo quella di Giulia Arborio Mella (1983). Se l’autrice non appartenesse al côté modernista, il libro potrebbe anche dantescamente intitolarsi La selva oscura.

Non è superfluo ricordare che il volume gode del raro privilegio di aver ricevuto in dono un’introduzione firmata niente meno che da Thomas Stearns Eliot.

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Copertina di La foresta della notte, di Djuna Barnes

A tutta prima, si direbbe un romanzo senza trama che consiste più che altro di una galleria di personaggi giustapposti fra di loro e tenuti insieme da un personaggio-amalgama che fa da collante, il dottor Matthew O’Connor. Senonché – prima di confermare perentoriamente la correttezza di quest’impressione – per timore reverenziale non si può non tener conto di quello che scrive Eliot: «Questo libro non è una semplice raccolta di tratti isolati; i personaggi sono tutti strettamente legati l’uno all’altro, come accade nella vita reale, più che dalla scelta volontaria della reciproca compagnia, da ciò che possiamo chiamare caso o destino; è il disegno complessivo di questi rapporti, piuttosto che ciascuna componente individuale, a costituire il fulcro dell’interesse».

Anche se l’autore della Terra desolata, nella sua introduzione, dopo aver asserito che «Quando descrissi La foresta della notte per invogliare i lettori all’edizione inglese, dissi che “sarebbe piaciuto innanzi tutto ai lettori di poesia”», predispone immediatamente una palinodìa («[…] non intendo dire che lo stile di Miss Barnes sia “prosa poetica”»), non si può negare che lo stile adottato dalla Barnes nella Foresta della notte sia molto vicino a quello della prosa lirica. D’altronde, è stato uno dei massimi poeti del Novecento, Dylan Thomas, ad aver sostenuto che quello della Barnes è «uno dei tre grandi libri di prosa scritti da una donna» e il suo è senza ombra di dubbio un elogio da collega a collega (la Barnes era anche poetessa). E, comunque, Eliot precisa: «Dire che La foresta della notte piacerà innanzi tutto ai lettori di poesia non significa che esso non sia un romanzo, significa che è un romanzo così bello che soltanto una sensibilità formatasi sulla poesia può apprezzarlo fino in fondo».

È difficile, però, riuscire a comprendere quanto ci sia di esornativo nello stile della scrittrice e quanto di effettivamente necessario e conforme al contenuto dell’opera dal punto di vista espressivo. Eliot mette subito le mani avanti, insinua nel lettore il dubbio che il romanzo sia inconsistente ma, al tempo stesso, con un trucco da illusionista, lo dissolve: «Non voglio dar l’impressione che i meriti di questo libro siano soprattutto verbali, e ancor meno che questo stupefacente linguaggio nasconda una vacuità di contenuto. Se il termine “romanzo” non si è troppo svilito, e se sta a indicare un libro nel quale si creino personaggi vivi e li si mostri in rapporti non gratuiti, questo libro è un romanzo». Certo, le frasi che potrebbero essere considerate “ad effetto” si sprecano e, a dire il vero, riescono di frequente a blandire e a incantare il lettore: «“[…] il riso è il denaro del povero”»; «“Rendere omaggio al nostro passato è il solo gesto che includa anche il futuro”»; «Chi ama tutto viene disprezzato da tutto»; «“L’amore è la prima menzogna; la saggezza l’ultima”». Qualcuna di queste frasi si dibatte tra l’aporia e l’ossimòro: «“L’uomo è nato dannato e innocente fin dall’inizio”». Qualche altra ha un sapore nichilista: «“Il vero bene che incontra il vero male (Santa Madre di Misericordia! ma esistono?)”». Qualche altra ancora è a più stretto contatto con l’essenza stessa della storia: «“[…] la notte fa qualcosa alla tua identità, anche mentre dormi”»; «“La vita non si lascia comandare”».

Un tentativo di ricostruire la trama del libro (i cui temi portanti sono l’identità, il desiderio, la sessualità e il dolore per la perdita della persona amata), per quanto esile e incerta questa possa essere, bisogna pur farlo.

La location principale della storia è Parigi. In particolare, i luoghi più citati sono situati nei dintorni di Saint-Sulpice e nel quartiere di Montparnasse. Felix Volkbein – un ebreo non tradizionalista che si sente «attirato verso la chiesa», di nazionalità austriaca e «ascendenza italiana», sedicente barone con la fissa dei nobili natali – ha il desiderio di procurare una discendenza al proprio “casato”. Sposa Robin Vote – conosciuta in circostanze fortuite nell’Hôtel Récamier, in cui entrambi soggiornano – che gli dà un figlio maschio, il quale in seguito si rivelerà per lui una profonda delusione (il dottor O’Connor lo aveva avvertito: «“l’ultimo figlio dell’aristocrazia è talvolta un idiota”»). Prima di decidersi ad avere il bambino, Robin si fa cattolica ed esce spesso di casa, prendendo treni per chissà dove, mettendosi a vagare assorta in misteriose meditazioni, elaborando «pensieri spopolati» e muovendosi con una «calma ostinata, catalettica». Difficile sostenere che tra i due coniugi ci sia vero amore. Il marito dà più che altro l’impressione di aver voluto prendere un “utero in affitto”. Dopo la nascita del figlio, la moglie non è quasi mai a casa, riprende a viaggiare, si mette a frequentare i caffè e a bere. Finché un giorno sbotta, riferendosi al bambino: «“Io non lo volevo!”». E abbandona la famiglia, facendo perdere le sue tracce per tre o quattro mesi. Quando ricompare è in compagnia di Nora Flood, con la quale ha una relazione sentimentale.

Sonnambula, in preda alla dromomania, raccolta in «una meditazione informe», Robin esce di casa sempre più di frequente, soprattutto di notte, inseguita da Nora che la osserva andare «di tavolo in tavolo, di bicchiere in bicchiere, di persona in persona». Vaga per le strade della capitale francese, spostandosi da un caffè all’altro, a caccia di fugaci incontri, irrimediabilmente persa tra i fumi dell’alcol. Per quanto le storie possano essere frutto della fantasia dello scrittore, c’è spesso un aggancio con la realtà: se la figura di Felix Volkbein è modellata su quella di Guido Bruno, editore della Barnes per un certo periodo di tempo, i personaggi di Nora e Robin sono ispirati rispettivamente all’autrice stessa e a una delle sue amanti, Thelma Wood (che Djuna pedinava e inseguiva nei suoi continui cruising notturni). Alla fine, anche Nora subisce il tradimento di Robin che si trova un’altra compagna, Jenny Petherbridge (una tizia che vive un’esistenza di seconda mano dal momento che la sua vita è vissuta attraverso le vite altrui, sottraendo affetti e oggetti e prendendo in prestito le parole; come Robin un personaggio beckettiano che meriterebbe una trattazione a parte proprio a causa della sua significativa insignificanza), con cui poi va via da Parigi per stabilirsi in America. Il finale è melodrammatico e, per non togliere ai potenziali lettori il gusto della sorpresa, non è opportuno svelarlo in anticipo.

Come già detto, tra i vari personaggi del racconto fa da collante il dottor Matthew O’Connor, nordamericano di origini irlandesi, confidente privilegiato di Felix e Nora. Quest’ultima si rivolge a lui per chiedergli di dirle tutto quello che sa a proposito della notte e implicitamente di sapere cos’è di per sé la notte. Il dottore, «che indossava una veste da notte di flanella, da donna. […]. […] pesantemente imbellettato, le ciglia dipinte», glielo spiega in maniera criptica in una lunga tirata, con ampie digressioni, che occupa un intero capitolo («Guardiano, com’è la notte?») di cui si riportano di seguito alcune delle frasi chiave: «“vi dirò come il giorno e la notte siano collegati dalla loro divisione”»; «“La struttura stessa del crepuscolo è una favolosa ricostruzione della paura”»; «“la notte non si premedita”»; «“la notte è una pelle tesa sulla testa del giorno perché il giorno sia tormentato”»; «“Il dormiente è proprietario di una terra sconosciuta”»; «“Il sonno esige da noi una colpevole impunità”»; «“Dice Donne: ‘Tutti siamo concepiti in un cieco carcere, tutti, nel grembo di nostra madre, siamo prigionieri isolati in una cella buia. Quando nasciamo, nasciamo solo alla libertà della casa – tutta la nostra vita non è che un camminare verso l’uscita, dove sono il patibolo e la morte’”». E, infine, una delle frasi già citate: «“[…] la notte fa qualcosa alla tua identità, anche mentre dormi”».

Sciamano e sacerdote dell’inconscio, una sorta di novello Tiresia, considerato da Felix «un gran bugiardo, ma un bugiardo prezioso», secondo alcuni il primo personaggio en travesti della letteratura moderna, il dottor O’Connor, che di notte si cambia d’abito e indossa vesti femminili, si lascia invasare dall’Es, esibendosi in un profluvio di parole incontrollate e incontrollabili e, in parte, apparentemente senza senso. Il suo eloquio è una manifestazione dell’inconscio stesso che sembra incarnarsi in lui. La casa in cui vive è una palpabile epifania della sua essenza e della sua esistenza. Più che un’abitazione è un tetro abitacolo, un antro angusto in cui O’Connor mette in scena se stesso, svelando la propria natura “femminea” attraverso gli oggetti che ha disseminato al suo interno, in primis lo chiffonier da cui traboccano abiti, biancheria e ornamenti mulìebri. Se nelle oscure foreste la luce spiove filtrando attraverso i folti rami degli alberi, nella stanza del dottore essa penetra da «un finestrino a grata», unica apertura verso l’esterno di cui l’abitazione è dotata.

La foresta della notte, che O’Connor descrive a Nora, è una metafora dell’inconscio, degli istinti primordiali, di quella parte buia e misteriosa della mente umana che – percorrendo sentieri tortuosi – finisce per far perdere all’individuo la propria identità e che – conducendolo in luoghi inesplorati – genera in lui terrore e angoscia. Il dottore, pur assumendo un’aria professorale si guarda bene, com’è uso dei veggenti, dal propinare all’amica una soluzione chiara ai problemi e agli interrogativi che gli pone. Egli stesso – in quanto animale uomo – è in preda a istinti bestiali, inconfessabili e, in una certa misura, ineffabili. È ossessionato dall’inconscio.

È una tendenza comune a tutti gli esseri umani quella di cercare di sottrarsi, di tanto in tanto, al dominio dell’Io e del Super-io e a far ritorno, anche se per breve tempo, alla propria “animalità”. Djuna dà conto di questo anche in una sua poesia in cui compare nuovamente il motivo del bosco o foresta («woods»). Nei versi che seguono, i bambini si svezzano («be un-parented») dai genitori (il Super-io) per far ritorno alla natura (l’Es), simboleggiata dalle foglie degli alberi («the leaves») e dall’intera foresta:

All children, at some time, and hand in hand,
Go to the woods to be un-parented
And ministered in the leaves
.
(“The Bo Tree”)

I personaggi della storia narrata dalla Barnes non sono affatto a tutto tondo. Sono appena abbozzati e, in qualche caso, quasi completamente privi di personalità. E, da quel che sembra di capire, molto probabilmente questa è una scelta deliberata dell’autrice.

Nel leggere la storia, il lettore si trascina da una pagina all’altra incantato, stupefatto e costernato, proprio come fosse in transfert con il personaggio più misterioso di tutta La foresta della notte, Robin Vote, la sonnambula «consunta dal sonno», anche lei personificazione dell’inconscio in quanto creatura notturna, in preda a impulsi irrazionali che non riesce a dominare. Robin Vote, il personaggio che ha la personalità meno delineata di tutti gli altri personaggi del libro (il dottor O’Connor confessa al barone di non aver mai avuto «un’idea veramente chiara di lei») proprio in quanto individuo perduto nell’indistinto magma della notte, «essere in letargo», che pur essendo in apparenza qui e ora è, in realtà, altrove («“Non voglio essere qui”» confessa a Nora, senza spiegare dove vorrebbe essere), in una dimensione – quella onirica – per sua natura precaria, situata sull’incerto confine tra essere e non essere, perennemente in bilico e – dunque – sempre prossima alla dissoluzione.

E questa eterna transience non è forse la condizione stessa della poesia?


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