La poesia della settimana: Giuseppe Conte

Amico di Italo Calvino, che lo ha menzionato nella prefazione del suo romanzo Palomar, definendolo amico conterraneo.
Il poeta
Non sapevo che cosa è un poeta
quando guidavo alla guerra i carri
e il cavallo Xanto mi parlava.
Ma è passata come una cometa
l’età ragazza di Ettore e di Achille:
non sono diventato altro che un uomo:
la mia anima si cerca ora nelle acque
e nel fuoco, nelle mille
famiglie dei fiori e degli alberi
negli eroi che io non sono
nei giardini dove tutta la pena
di nascere e morire è così leggera.
Forse il poeta è un uomo che ha in sé
la crudele pietà di ogni primavera.
Guardare il mondo. Quello intorno a te. Quello distante migliaia di chilometri. Quello che credi non ti appartenga, proprio per quelle migliaia di chilometri di distanza. Quello che ti appartiene perché per sfuggirlo avresti dovuto salire su una montagna e scomparire per sempre nell’oblio. O non nascere affatto.
Giuseppe Conte lo ha osservato il mondo. Ne ha assorbito le crudeltà e le vane speranze, attendendole davanti a un panorama ligure, dove rifugiarsi nei suo versi spontanei. Crudi. Veri. Senza compromessi. E ce li consegna, questi versi puri, come acqua che sgorga dalla durezza della vita, alla quale dissetarsi di cultura e libero pensiero.
Sarà la sua origine siciliana, il cognome lo evidenzia fin troppo, mescolata alla dolcezza della riviera ligure, violentata da speculatori del nuovo millennio, che traspare da una sopita nostalgia, che trascina il lettore oltre i confini ipocriti della propria tana domestica. E lo invita a spalancare gli occhi ciechi davanti al disagio degli orrori di una nuova guerra.
E’ la poesia, quell’anima maledetta avvolta da sentimenti distratti, l’ultima isola di Wight dove adagiare le esperienze, spesso che avremmo evitato di vivere, e provare pietà per il mondo. E per noi stessi.
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