Forugh Farrokhzad

La voglia di vivere la propria libertà di donna in un paese fiabesco, consegnato agli orrori della guerra. I versi di una poetessa ribelle, occasione per raccontare la vita di un uomo. Stanco di fuggire.

di Piero Buscemi - mercoledì 1 aprile 2015 - 4476 letture

Saluterò di nuovo il sole

Saluterò di nuovo il sole,
 e il torrente che mi scorreva in petto,
 saluterò le nuvole dei miei lunghi pensieri
 e la crescita dolorosa dei pioppi in giardino
 che con me hanno percorso le aride stagioni.

Saluterò gli stormi di corvi
 che a sera mi portavano in dono
 l’odore dei campi notturni.
 Saluterò mia madre, che viveva nello specchio,
 immagine della mia vecchiaia.

E saluterò la terra, il suo desiderio ardente
 di ripetermi e riempire di semi verdi
 il suo ventre infiammato,
 sì, la saluterò
 la saluterò di nuovo.

Arrivo, arrivo, arrivo,
 con i miei capelli come odori
 che sgorgano dal sottosuolo
 e gli occhi miei, l’esperienza densa del buio.
 Con gli arbusti che ho strappato ai boschi oltre il muro.

Arrivo, arrivo, arrivo,
 e la soglia trabocca d’amore
 ed io ad attendere quelli che amano
 e la ragazza che è ancora lì,
 nella soglia traboccante d’amore, io
 la saluterò di nuovo.

Said (nome di fantasia, n.d.r.), lavora come tuttofare in un locale siciliano. Ti accoglie sempre con un sorriso, tra una lastra da vetrina da lavare e i suoi ingenui tentativi di prepararti un espresso italiano. E’ iraniano. E’ scappato dalla guerra, lasciandosi dietro una famiglia sterminata dall’esercito di uno dei tanti dittatori che hanno accompagnato la sua vita. Uno di quelli che, altri, hanno scelto per lui e il suo popolo.

La sera, dopo il turno di lavoro, ama rilassarsi in palestra e prima di andare a dormire, studia l’italiano perché dice "...io devo imparare la lingua del paese dove ho deciso di vivere". L’inglese lo conosce già, ma è stato un lasciapassare utile durante la sua fuga dall’Iran.

L’altra mattina ha visto su un quotidiano una foto di repertorio di uno dei Khamenei o Khomeyni che hanno venduto il suo popolo alla guerra. "Questo è un uomo cattivo, come tanti uomini di potere del mio paese", ha commentato con un sorriso di sconfitta, provando a riprendersi il ruolo di profugo di un paese che, forse, non rivedrà mai.

Poi mi ha mostrato delle foto in bianco e nero. Ritraevano delle ragazze e dei ragazzi sorridenti all’esterno di un palazzo che, Said ha confermato, era l’università. Quello che mi ha sorpreso è vedere le ragazze in jeans e camicia, con i capelli sciolti e una libertà di scambi sociali, manifestata dai loro volti che trasparivano serenità.

"Questo, una volta, era il mio popolo", mi dice soffermandosi su quelle immagini nostalgiche. "Prima che una rivoluzione ci illudesse che fosse stata combattuta per costruire una società migliore per le prossime generazioni", sentenzia senza che io possa profferire alcun commento che non evidenzi una conoscenza sommaria di quella realtà.

"Ho una moglie e dei figli". Mentre me lo confessa, guardo nuovamente le foto, quasi a cercarne il volto. "Sono negli Stati Uniti. Scappati e rifugiati sotto falso nome". Vorrei bloccarlo perché, in fondo, credo che non si debba giustificare di niente. "Per la loro sicurezza, mi sono dato anch’io un altro nome. Carmelo, Giuseppe, Rosario. Che importanza ha? Non posso neanche sentirli per telefono, per paura di creare problemi. Non possono permettersi un’altra fuga. Per dove, poi?"

Non trovo alcuna parola per rispondergli. Neanche solo per provare a mostrargli la stessa amicizia che lui mi sta offrendo, raccontandomi la sua vita. Lo guardo per un attimo allontanarsi per inscenare la professionalità del barista, in un altro suo tentativo di servire il miglior espresso della Sicilia.

Torna verso me, ancora sorridente. "Bella questa poesia. Non la conoscevo. Neanche la poetessa", il suo saluto, prima di congedarsi e rispondere al richiamo proveniente dalla cucina del locale.


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