Francesco Guccini

Le stragi nel Mediterraneo non annullano soltanto un sogno di libertà, o d’illusione. Col tempo, stanno cancellando un ricordo di coscienza.
Amerigo
Probabilmente uscì chiudendo dietro a sé
la porta verde.
Qualcuno si era alzato a preparargli in fretta
un caffè d’orzo.
Non so se si girò, non era il tipo d’uomo
che si perde
in nostalgie da ricchi, e andò per la sua strada
senza sforzo.
Quand’io l’ho conosciuto, o inizio a ricordarlo,
era già vecchio
o così a me sembrava, ma allora non andavo
ancora a scuola
colpiva il cranio raso e un misterioso e
strano suo apparecchio
un cinto d’ernia che sembrava una fondina
per la pistola
ma quel mattino aveva il viso dei vent’anni
senza rughe
e rabbia ed avventura e ancora vaghe
idee di socialismo.
Parole dure al padre e dietro tradizione
di fame e fughe
e per il suo lavoro, quello che schianta
e uccide: il fatalismo.
Ma quel mattino aveva quel sentimento nuovo
per casa e madre
e per scacciarlo aveva in corpo il primo vino
di una cantina
e già sentiva in faccia l’odore d’olio e mare
che fa Le Havre
e già sentiva in bocca l’odore della polvere
della mina.
L’America era allora, per me i G.I. di Roosvelt
la quinta armata
l’America era Atlantide, l’America era il cuore,
era il destino
l’America era Life, sorrisi e denti bianchi
su patinata
l’America era il mondo sognante
e misterioso di Paperino
l’America era allora per me provincia
dolce mondo di pace
perduto un paradiso, malinconia sottile,
nevrosi lenta
e Gunga-Din e Ringo, gli eroi di Casablanca
e di Fort Apache
un sogno lungo il suono continuo e ossessivo
che fa il Limentra.
Non so come la vide quando la nave
offrì New York vicino
dei grattacieli il bosco, città di feci e strade,
urla, castello!
E Pàvana un ricordo lasciata tra
i castagni dell’Appennino
l’inglese un suono strano che lo feriva al cuore
come un coltello
e fu lavoro e sangue, e fu fatica uguale
mattino e sera
per anni da prigione, di birra e di puttane,
di giorni duri
di negri ed irlandesi, polacchi ed italiani,
nella miniera
sudore d’antracite, in Pennsylvania, Arkansas,
Tex, Missouri.
Tornò come fan molti, due soldi e
giovinezza ormai finita.
L’America era un angolo, l’America era un’ombra
nebbia sottile
l’America era un’ernia, un gioco di quei tanti
che fa la vita
e dire boss per capo, e ton per tonnellata,
rifle per fucile.
Quand’io l’ho conosciuto, o inizio a ricordarlo,
era già vecchio
sprezzante con i giovani, gli scivolavo accanto
senza afferrarlo
e non capivo che quell’uomo era il mio volto,
era il mio specchio
finché non verrà il tempo in faccia a tutto il mondo
per rincontrarlo.
"...Finché non verrà il tempo in faccia a tutto il mondo/per rincontrarlo", sono i versi finali di questa canzone che Guccini ripete tre volte nel finale nella versione cantata. Quando fu inserita nell’album omonimo, uscito nel 1978, era già un messaggio per le generazioni successive, dopo che anch’egli aveva attinto dal passato un’altra storia di migrazioni. Oggi, difficilmente con il ritorno citato nelle parole del cantautore.
E si potrebbero ricordare cronache, più o meno dimenticate, alcune lasciate nell’oblio di un mondo che prova a dare le risposte a domande che non sa più porsi. Si potrebbero citare film, libri, altre poesie di chi ha visto un aspetto cosmopolita del mondo che a molti, in questi tempi, sembra sfuggire.
Perché ci si appropria di un diritto di appartenenza, del quale solo una casualità ha stabilito una latitudine dove collocarlo. Ci si arrocca dietro ideologie, presunzioni, detenzioni di verità assolute, dentro le quali la vita umana vale meno di un oggetto galleggiante che "oltraggia" il nostro consumismo e i sensi di colpa.
Non si perde neanche il tempo per approfondire quanto una sommaria e oculata informazione ci crea intorno al nostro mondo, dove vorremmo rifugiarci per sempre e custodire un oltraggio all’immortalità. Quasi a proteggere un mito culturale che, in altre occasioni, abbiamo cancellato senza ritegno, e adesso rivendichiamo scandalizzati da invasioni culturali che ci ostiniamo a separare da un unico passato.
Qualcosa sta cambiando dentro le sicumere delle nostre vite, in quelle degli altri, in quelle che preferiamo ignorare illudendoci che non si debbano mischiare alle nostre. Ma non abbiamo alcun potere per controllare e modificare quanto accade intorno a noi, se non ci soffermeremo a cercare ostinatamente il rovescio della medaglia di quanto ruota attorno al nostro vissuto, che sentiamo minacciato.
Se non prendiamo a prestito quel verso di Guccini "...e non capivo che quell’uomo/era il mio volto/era il mio specchio" per trasformarlo in chiave di lettura del nostro destino.
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