L’ultima discesa senza mani

Quando si parla di Marco Pantani, la mente ci trascina su spericolati tornanti da scalare. Un’immagine predomina sulle altre: l’omino calvo dalla maglietta gialla, con le vene del collo sotto sforzo, uno sguardo improvviso per scegliere il momento giusto. E poi il vuoto.
Quando si parla di Marco Pantani, la mente ci trascina su spericolati tornanti da scalare. Un’immagine predomina sulle altre: l’omino calvo dalla maglietta gialla, con le vene del collo sotto sforzo, uno sguardo improvviso per scegliere il momento giusto. E poi il vuoto.
Il vuoto di una maschera da Pirata a nascondere paure, ansie e segreti. Pantani è stato l’omino descritto da una canzone di Gino Paoli, colonna sonora di qualche anno fa, alle dirette televisive del Giro d’Italia. L’omino che ha riportato il pubblico sportivo, a riecheggiare le imprese dei miti del ciclismo: Coppi, Bartali, Binda. Personaggi che cavalcavano puledri di metallo e gomma e sudore e sangue. Puledri di leggenda. Pantani, uno di loro. Nell’era moderna delle immagini a colori, delle biciclette ultraleggere, dei 45 o anche 50 chilometri orari di media, che diventavano 90 nelle discese, da affrontare con la classica posizione ad "uovo", con la testa abbassata sul manubrio a scacciare la paura e il culo in aria a sfidare gli invidiosi.
Siamo rimontati tutti, uno alla volta sulle nostre vecchie biciclette da spolverare. Abbiamo percorso con l’immaginazione le strade del Pirata. Abbiamo vissuto le sue fatiche tra le vie dei nostri quartieri. Abbiamo creduto che la leggenda fosse cosa umana. L’abbiamo creduto fin da quel lontano 1994, quando lui, appena ventiquattrenne, sorprese gli scettici con i suoi 60 chili di rabbia e rischiò di detronizzare il passato, giungendo secondo a quella edizione del Giro d’Italia. Milioni di persone si sono incollati ai teleschermi o ai bordi delle strade, o a rincorrerlo a piedi per farsi mandare "a quel paese" per un po’ d’acqua spruzzata sulla nuca. Milioni a sentirselo come figlio, fratello, eroe di solitudine. Le sue poche parole e i sorrisi soffocati. I suoi gesti programmati, i messaggi alla folla, la bandana lanciata sull’erba, il suono metallico del cambio e poi, via…a fuggire con lui verso i Gran Premi della Montagna, l’Ultimo Chilometro e un Traguardo di Speranza. Ci ha trascinato sulla Cima Coppi, sui Pirenei, sulle strade innevate, tra la nebbia, a cercare ancora quella maglia gialla di tristezza. E noi lo abbiamo seguito nei suoi successi, a Milano a trasformare il giallo in rosa e sui Champs Elisées a colorare il mondo di tricolori.
E lui ha vestito il costume dell’eroe di altri tempi. Senza fare domande. Senza aspettare risposte. E come eroe ha vissuto. E come eroe è morto. Due volte nella polvere... due volte sull’altare. Madonna di Campiglio, il palcoscenico del suo crollo sportivo. Accusato, umiliato, cacciato dal giocattolo che rischiava di rompersi. Squalificato, processato, esiliato e abbandonato. Infine assolto.
Pantani, l’elefantino dei francesi, il Pirata degli italiani. Respinto dal mondo che aveva fatto risorgere. Il Tour che rifiutò la sua iscrizione, per paura di contaminazioni culturali. Il Tour che ha insabbiato tra una tappa e l’altra, le confessioni di Virenque, l’eroe transalpino dallo stesso destino. Il Tour che non ha mai spiegato perché Indurain, il colosso spagnolo della Pamplona, ha dominato cinque edizioni del Tour, snobbando qualsiasi altra competizione ciclistica.
Ma noi ricordiamo, come gli elefanti, l’intervista che il "misterioso" ciclista rilasciò a Striscia la Notizia, l’anno scorso. Ricordiamo giovani atleti, passati al professionismo e poi subito ritirati per paure e pressioni che non hanno mai avuto spiegazioni logiche. Ricordiamo quella maglia gialla della Mercatone Uno, che dominò il Giro e il Tour nel 1998 per poi guardare il gruppo scappargli via, alle prime salite delle edizioni successive.
Il Pirata ci ha lasciato. Ieri sera, in una stanza d’albergo. Da solo, come tutti gli eroi. Come Marylin, come Napoleone. E così vogliamo ricordarlo, prendendo a prestito i versi di Manzoni:
"Tu dalle stanche ceneri
sperdi ogni ria parola:
il Dio che atterra e suscita,
che affanna e che consola,
sulla deserta coltrice
accanto a lui posò."
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Pantani riuscì a superare tutto... incidenti fisici, crolli sportivi ecc ecc Non è riuscito a superare la "morsa mediatica" quella di cui parlava il precursore Pasolini. Quella morsa ke riduce l’uomo a pura è semplice immagine, la mercificazione dell’umano, niente sentimenti, nessuna lacrima, nessuna debolezza... sempre forti, ottimi risultati in tutto brillante. Quindi il suicidio (autodistruzione) in realtà è stato un omicidio ke ha dei mandanti (TUTTI) ed gli esecutori (MASMEDIA). Non x essere retorico ma il CAPITALISMO nella distruzione dell’individuo (essere pensante e animato) è il massimo maestro.
Condivido integralmente la sua opinione. Mi permetto di aggiungere solo un dubbio personale, e forse di tanti altri che si sono scontrati con l’infausta esistenza di Pantani. Dubbio che mi ha assalito durante la stesura dell’articolo ed ha finito per caratterizzarlo: "Fino a che punto si può credere che la vittima della mercificazione dell’uomo da lei citata, non sia anche un complice di questo astruso sistema"?