Buffet delirante: apatia, filosofia ed un’ultima corvé d’immagine preconfezionata

Recensione del romanzo d’esordio di Daniele Di Marco, "Buffet Delirante" (Statale11 editrice, 2008).
Un’esplosione di sensazioni indescrivibili, rasenti ad un falso formalismo, colpiscono il lettore nella parte più nascosta del suo cervello. In quella che pensa, per intenderci. Quella che si illude ancora di rimanere immune ai condizionamenti.
E’ il primo acchito con “Buffet delirante”, il romanzo d’esordio di Daniele Di Marco, uscito qualche settimana fa. Il tutto dura solo l’istante delle due prime pagine. Una premessa senza attenuanti. Un personaggio che invade la falsa tranquillità quotidiana del lettore. Brevi attimi di introspezione con se stessi, dove la propria anima funge da imputato alla sbarra ed il protagonista della storia si accomoda tra le pieghe della propria distrazione. La pagina seguente: il baratro.
Un salto nel buio, tra reminiscenze giovanili (che soffocano qualsiasi accenno nostalgico) e la triste constatazione di uno scambio, fin troppo precoce, di ruoli non sempre intercambiabili di chi pratica e subisce ogni forma di potere.
In questo libro, la metafora della lotta alla sopravvivenza, anche quella di improvvisati compagni di vita, si aggrappa sulla storia di Martin Soccese (un’alterazione del noto regista italo-americano, senza dubbio!), un personaggio che ci racconta la sua esperienza di vita, strappata, senza troppo entusiasmo, dalla monotonia al dovere di uno dei tanti uffici produttivi milanesi e riciclata in dodici mesi di servizio di leva, in quel di Fano.
In una sorta di diario quotidiano, nella prima parte del romanzo l’autore ci guida verso una cinica spunta degli eventi. Cenni cronologici, i soliti ripetuti nel tempo, che ogni figlio della patria potrebbe raccontarci, arricchendo la narrazione di aneddoti coloriti e contraddittori, ad esaltare un periodo di vita, spesso ricordato negli anni a venire con un misto di nostalgia ed un retrogusto amaro.
Le annotazioni del personaggio Martin macchiano disordinatamente un quotidiano di circostanza, tra incontri necessari nelle camerate, tra commilitoni umiliati e graduati stressati. Al centro, una sottile linea di menefreghismo ed opportunismo di chi, altra illusione, auspica di occupare un ruolo privilegiato da “nonno” vaccinato e pretenzioso di potere, a sostegno di rivendicazioni d’appartenenze regionali, dimenticate in altre circostanze.
La reazione di Martin, a queste pressioni psicologiche, preconfezionate, di un’assurda tradizione da rispettare, è il filo conduttore della narrazione. Il suo lassismo e quasi adeguamento, caratteristici della seconda parte del romanzo, ci riporta alla mente il personaggio di Albert Camus nel suo Lo Straniero. Uno stato d’animo che scorre tra le pagine del romanzo, con brevi cadute di ritmo e impreviste impennate, quasi sincopate, in una sorta di letargo mentale che si abbandona in un delirio (per riprendere il titolo) e con l’unico scopo prefissato di giungere, comunque, ad una fine. Un’apatia che non si rileva solo con un congedo militare, ma va oltre, quasi a poterla trasformare in filosofia di vita.
Filosofia che troviamo accennata, tra un capitolo e l’altro: brevi epitaffi, scelti con cura, che non pretendono di dare risposte certe, anzi, invitano ad una riflessione disordinata e quasi istintiva, sulla quale edificare alibi di necessaria “uscita di scena” da una scomoda interpretazione. Un bouffet delirante, appunto.
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