Antonio F. e la 180

Non osiamo scrivere il cognome per intero perché Antonio, di problemi, ne ha fin troppi. Proviamo a raccontare la sua storia di “matto” in una società di "sani" indifferenti.
Quando il 13 maggio del 1978 fu promulgata la legge n.180, la “legge Basaglia” per intenderci, Antonio frequentava le elementari e niente gli avrebbe fatto prevedere che, questa legge nata per mettere fine allo scempio della gestione disumana dei manicomi in Italia, potesse un giorno condizionare la sua vita.
Antonio è cresciuto in un paesino del messinese (omettiamo il nome a garanzia della privacy di Antonio), dove il primo lavoro che impari è il pescatore. Perché Antonio, figlio di pescatore, non poteva ambire ad un destino diverso, se non a qualche giornata mal pagata nelle campagne circostanti. O a qualche settimana ad impastare cemento nei cantieri-scuola finanziati dalla regione.
Poche ore e pochi soldi per poterlo chiamare futuro. Sufficienti per macchiare l’estratto contributivo negli archivi I.N.P.S. di molti giovani, già allora affamati di lavoro, negli anni ’80.
Antonio ha fatto di più. Di più, di chi si è accontentato a pulire seduto gli scalini della piazza del paese, durante i riposi forzati in attesa dell’apertura dell’ex ufficio collocamento. Si, Antonio ha fatto di più: è diventato un tossico. Part-time, dalle 23,00 a ...fino a farsi trovare addormentato sulla spiaggia da qualche cane randagio di passaggio.
Sua madre lo raccoglieva e se lo riportava a casa. Ogni mattina. Sulle braccia, i segni delle ribellioni del figlio. Nell’anima, la speranza di trovarlo sempre vivo. Tra le prediche di rito, lo convinse a partire. Per provare ad alzare il livello economico della famiglia, tornata in paese dopo qualche anno vissuto in Germania. Perché “...li cé travagghiu e ti fai i sordi”.
E Antonio ci andò, in Germania. Qualche estate fa. Con la sua eredità di tossico da smaltire nella pizzeria dei suoi due fratelli, che lo avevano preceduto in questa avventura. Poi, una notte di discoteca del dopolavoro, partì per un altro “viaggio”. Un viaggio che sapeva di LSD. Ricoverato ed espulso d’urgenza.
Dopo un mese d’ospedale, il ritorno al suo paese. Fisico, di certo non mentale. Ha ripreso a lucidare scalini di pietra nella piazza. Non aspetta niente. Né qualcuno. La sua mente vaga per i vicoli, tra ricordi confusi e qualche vuoto di memoria. Ha trovato anche il tempo per incrociare la 180. Si, la legge Basaglia.
L’ha incrociata una sera da “fuori” programma. In un bar. Urlava e rideva. Rideva e piangeva. Parole sconclusionate che si rincorrevano tra dicerie di paese e divertimento cinico degli astanti. Poi, un vetro in frantumi. E i carabinieri. Come un delinquente comune.
No, come un “pazzo” comune. Perché Antonio è stato internato. Scusate: è stato affidato. Fa meno effetto, ma il risultato è lo stesso. Secondo la legge 180, all’art. 1, “Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori sono disposti con provvedimento del sindaco, nella sua qualità di autorità sanitaria locale, su proposta motivata di un medico”. Il sindaco (omettiamo il nome per salvaguardare l’incolumità di Antonio), però, aveva altro da fare quel giorno.
Sarà per questo che, Antonio è finito a Gazzi, il carcere di Messina. Le accuse: resistenza a pubblico ufficiale, danni a proprietà privata e minacce aggravate. Quest’ultima accusa sa di grottesco, se si considera che, l’hanno bloccato con il telefonino stretto nella mano.
Forse pensavano ad un detonatore e ad Antonio, come un kamikaze. Ma lui voleva solo avvertire la madre, manifestando un diritto sancito dalla stessa legge Basaglia: “...nel corso del trattamento sanitario obbligatorio, chi vi è sottoposto, ha diritto di comunicare con chi ritenga opportuno”.
Era nel suo diritto anche la degenza ospedaliera, al posto del soggiorno carcerario che gli hanno propinato. Almeno, stando all’art. 2: “...la proposta di trattamento sanitario obbligatorio può prevedere che le cure vengano prestate in condizioni di degenza ospedaliera solo se esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accettati dall’infermo e se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extra ospedaliere”.
Se la condizione era “l’alterazione psichica”, quella di Antonio, come doveva essere considerata? In tutta questa storia, i carabinieri, l’arresto e il carcere, come si collimano con le disposizioni della legge 180?
Ma, forse c’è un errore alla fonte, nel raccontarla. Stiamo trattando un caso che le autorità competenti, mai come ora, avrebbero dovuto trattare come problema patologico e di stretta attinenza alle strutture ospedaliere. Un problema dove, la sensibilità e l’umanità erano gli attributi più indicati. Un problema che la legge 180 contempla nei suoi undici articoli, ma che chi aveva la responsabilità per curarsene, ha glissato passando la mano ad una soluzione giuridica che di giuridico, ha solo i reati contestati ad Antonio.
Forse, Franco Basaglia, nel pensare la sua legge, rivolse la sua attenzione a malati come Antonio, per le cui cause ognuno ha una coscienza per provare a discolparsi; forse, comprese i genitori di Antonio che si chiudono a chiave nella loro stanza, tutte le sere per paura delle reazioni incontrollate del figlio, che sopportano in silenzio le sue “uscite di testa” per paura di un altro affidamento carcerario.
Forse, sottovalutò le interpretazioni e i disinteressi dei politici che si occuparono di metterla in pratica, questa legge.
Non ci sentiamo di giudicare o criticare una legge, le cui motivazioni nel formularla, collochiamo nella buonafede di un tentativo di affrontare un problema così delicato, sotto l’aspetto più umano possibile. Non ci riconosciamo una competenza adeguata per affermare dove poterla cambiare o migliorare.
Ci limitiamo a testimoniare, nel possibile, storie come quella di Antonio, dove il peso psicologico ed economico, ricade ancora sulle famiglie.
Invitiamo tutti a mettersi per un giorno, fosse anche per un’ora, al posto di quei familiari che vivono a contatto con soggetti come Antonio, impotenti davanti alle fughe mentali del figlio e alle latitanze di chi si gloria dei benefici delle competenze, ma rinnega le responsabilità di un incarico che forse non si merita.
Ma è d’obbligo scivolare nella retorica: i pazzi stanno fuori!
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