Alexis de Tocqueville, Uno Sguardo Realista e Dubbioso sulla Sicilia

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Alexis de Tocqueville, Uno Sguardo Realista e Dubbioso sulla Sicilia / di Emanuele Gentile

 

Ricettività

La locanda, un microcosmo

Dopo la carrozza è la locanda il microcosmo per eccellenza dove si annullano le distanze e si appianano le differenze di ceto e di borsa. Ruoli e pratiche del vivere quotidiano sembrano soggetti ad una momentanea sospensione, la parola circola con meno impaccio rispetto ai protocolli abituali, la tavola conviviale costituisce l'occasione per incontri di nuove specie.[1]

Locande buone e cattive

La cattiva fama delle locande di posta italiane è ampiamente testimoniata, sebbene esistano voci di contro canto. In via generale, nel nord Italia, e in particolare lungo una trafficata via di comunicazione, il comfort era certamente più alto rispetto alle sperdute contrade meridionali. Montaigne (1581), nella sua sosta a Rovereto, per esempio, rimpiange la pulizia tedesca ma apprezza le cortine di tela ai letti e induce a notare interessanti distinzioni come quelle fra la civiltà del piumino, nordica, e quella della coperta di lana, italiana, oppure quella fra l'area della birra e del vino, quest'ultima, mediterranea, che non conosce l'ubriachezza. A Levanella, poi, fra Firenze e Arezzo, loda il lusso di una piccola osteria dove servono il cibo in piatti di peltro, come nei più lussuosi alberghi parigini. Particolarmente famigerate, invece, le locande di Radicofani sulla via Francigena dopo Siena (cui è dedicato uno spazio descrittivo notevole e orientato al romanzesco), Pietramala (Appennino), Camicia (Trasimeno). Nel sud di Italia, Roland de la Platière, nel 1777, «osserva che la locanda si riduce a una stalla enorme alla cui estremità si fa il fuoco e si cucina senza camino né fornelli, dove si mangia e ci si corica su tavolacci appoggiati a file di mattoni messi per ritto al centro della stalla, dietro ai cavalli, o nella mangiatoia quando c'è posto» (Brilli, 2004).[2]

Una descrizione

Il vasto piazzale delle stazioni di posta è un piccolo brulicante mondo su cui si affacciano, insieme alla locanda, le scuderie, l'officina del maniscalco, la biglietteria, il deposito bagagli, le rimesse delle carrozze. La contiguità delle bestie conferisce all'agognato luogo di sosta un inconfondibile lezzo di letame, come dice Howells in Italia nel 1640 (cui fa concorrenza, secondo Lady Blessington - 1826, il tanfo di cavolfiore bollito nei più lussuosi alberghi fiorentini); la conformazione del locale, inizialmente unico per vitto e alloggio, lo rende fumoso e sporco, condannato alla promiscuità (si mangia a tavola coi propri servi), all'estrema povertà di arredi. Le voci dei viaggiatori raccontano di finestre senza vetri in stanze senza camini, porte senza chiavi, letti sporchi ma spruzzati d'acqua (e dunque umidi) per far credere che siano freschi di bucato, condizioni igieniche generali precarie, assenza di latrine, così che Samuel Sharp (1766) si lamentava di dover sopportare sotto gli occhi e sotto il naso, per tutta la notte, ciò che sarebbe stato opportuno «rimuovere e consegnare all'oblio» (Brilli, 2004).[3]

Accorgimenti utili

I rimedi consigliati erano molti, il principale, che era anche un lusso, quello di viaggiare portandosi dietro un letto. La lettiera poteva essere smontata e ripiegata in poco spazio. Bisognava comunque arieggiare la stanza, immergere le gambe del letto nell'acqua al vetriolo per evitare gli assalti di sgraditi animaletti, smontare i baldacchini per evitare corse di sgradevoli quadrupedi, spruzzare di lavanda o fornirsi di pastiglie di canfora per volatili vari. Altro consiglio sempre valido è quello di «portare con sé un marchingegno di ferro con il quale chiudere la porta dal di dentro», una serratura da camera che raccomandano Evelyn nel 1644 come la Starke due secoli dopo.[4]

Cibo e altri pericoli

L'altro capitolo afferente il racconto della sosta, quello del cibo, presenta tratti meno inquietanti, limitandosi le sorprese meno gradevoli alle locande fuori mano, e quelle dei centri minori. Vi è tutto un filone poi che racconta di accordi segreti fra locandieri e briganti, col caso tristemente famoso delle locande dello stato pontificio e di quello borbonico.[5]

Gli ospizi dei valichi

Un caso a parte è rappresentato dagli ospizi dei valichi dove il soggiorno si rivelava perlopiù gradevole. L'assistenza al Gran S. Bernardo, per esempio, era gratuita per tutti, senza distinzione. Era sufficiente iscriversi nell'album dei visitatori e lasciare una mancia ai monaci tuttofare che, all'occorrenza, si occupavano anche di recuperare i dispersi e li rianimavano strofinandoli con la neve. Per i forestieri di qualche riguardo potevano persino trovarsi delle stufe. I posti erano molti e il cibo genuino e buono. Niente che facesse rimpiangere gli alberghi delle grandi città (Astengo, 1992)[6]

Alberghi

Amati e attesi gli alberghi cittadini che, in omaggio ai viaggiatori stranieri più numerosi erano intitolati, spesso, alla loro nazione di provenienza: Gran Bretagna, Regina di Inghilterra, Villa o Pensione, o Torre o Albergo di Londra. Le grandi città, Roma, Napoli, Firenze, Venezia, erano provviste di strutture decisamente ben equipaggiate e relativamente a buon mercato, certamente per le tasche degli inglesi. Ducos (1819) resta affascinato dallo Schneiderff di Firenze, dove ai viaggiatori venivano assegnati inservienti che parlassero la loro lingua, dove, immersi in un silenzio ovattato, si poteva riposare su letti candidi e mangiare ad una tavola raffinata: «sembra di essere in un luogo incantato.»[7]

Nella media anche le città di modesta dimensione non sfiguravano certo: Duclos (1766), arrivato a Pisa con una sedia a due, dà un buon giudizio sull'albergo dove alloggia, situato vicino al ponte di marmo; Ducos (1819) apprezza i Tre Re di Siena. Rari invece i buoni alberghi nei piccoli centri, con qualche eccezione, come quella segnalata da Duclos (1766), che in visita a Viareggio vi trovò una buona cena e letti puliti: «è il solo luogo d'Italia, eccettuate le città, e non tutte, del quale si possa parlare così bene».

Nell'Ottocento la diffusione della moda e l'ampliamento della linea ferroviaria alla situazione alberghiera italiana una nuova dignità, ma nelle plaghe meno battute, dove ancora sono pesanti i problemi di infrastrutture, cominciano a diventare una alternativa di ospitalità i conventi.[8]

Camere locande

Le camere locande, «meno costose degli alberghi e più decorose delle scalcinate osterie postali» (Brilli, 2004), vantano un dossier di testimonianze di segno quasi sempre positivo, che lodano la pulizia, il silenzio, la fornitura di biancheria da letto e da tavola sempre fresca e pulita, un vitto abbondante cucinato a prezzi accettabili. Notevole per esempio l'entusiasmo di Ducos (1819) per l'ospitalità in una casa di Torrenieri, lodata per l'aspetto lindo, la calda accoglienza, il buon cibo, la condotta degli ospiti, niente affatto «mercenaria». Famose divennero, soprattutto nell'Ottocento, le pensioni romane per gli artisti.[9]

Affitti

Gli affitti, infine, avevano fama di avere dei prezzi ben abbordabili. Leigh Hunt, per esempio, nel 1822, pagò neppure trenta sterline annue a Genova per un palazzo di quaranta stanze, scale e terrazza di marmo. Anche se bisogna fare la tara a questo entusiasmo, che era giustificato soprattutto dal cambio favorevole della sterlina, non si trattava di una sistemazione sconveniente. Così anche Firenze, che pure era più cara, consentiva agli inglesi una vita lussuosa. Stessa cosa a Roma che offriva una ampia scelta di appartamenti, i preferiti a Trinità dei Monti dove si trovava il celebre Caffè degli Inglesi che, come molti altri sparsi in diverse città d'Italia, era un punto di riferimento della vita culturale del luogo. Da lì, una delle migliori posizioni di Roma, si vedeva quasi tutta la città e gran parte della campagna: un osservatorio ideale per i pittori.[10]

Ospitalità privata

L'indigenza e lo squallore delle locande di posta, che i viaggiatori cercavano di mitigare portandosi dietro di tutto, dalla biancheria agli oggetti di cucina, era il motivo delle tante querule lamentele: le camere gelide, i letti umidi, la scarsità di candele, i soffitti coperti di ragni, l'assalto delle cimici, o pulci, o pidocchi, il latte e il burro introvabili.[11]

Un sistema per evitare tutto questo trambusto era procurarsi ospitalità presso qualche casa privata. Questo era il valore portentoso delle lettere di presentazione che, a seconda del mittente e del suo grado di importanza, potevano aprire al viaggiatore le porte di case per bene, comode e ben equipaggiate. La consuetudine è talmente diffusa che ancora nell'Ottocento le guide turistiche più comuni, come quelle dell'editore milanese Artaria, consigliano vivamente il turista di «munirsi di lettere commendatizie» per le famiglie più illustri della città, anche se con la borghesizzazione del viaggio quegli accessi, che una casta aristocratica regolava e alimentava fra i suoi membri, cominciano a essere negati.[12]

Un viaggio tra case private è sostanzialmente quello del poeta Thomas Gray che, accompagnando l'aristocratico e ben accolto Horace Walpole tra il 1739 e i 1741, riferisce di molti soggiorni in abitazioni private, famoso quello di Firenze dove è ospite, col Walpole, del console inglese Horace Mann: «siamo qui sistemati con il signor Mann in un appartamento incantevole; sotto le finestre scorre l'Arno da cui possiamo pescare. Il cielo è così terso e l'aria così temperata che ci si può trattenere all'aperto con una vestaglia leggera per tutta la notte senza il minimo pericolo; corron tutti al ponte di marmo ad ascoltare la musica, a mangiare frutta gelata e a cenare al chiaro di luna…»[13]



[1] cfr. ibidem

[2] cfr. ibidem

[3] cfr. ibidem

[4] cfr. ibidem

[5] cfr. ibidem

[6] cfr. ibidem

[7] cfr. ibidem

[8] cfr. ibidem

[9] cfr. ibidem

[10] cfr. ibidem

[11] cfr. ibidem

[12] cfr. ibidem

[13] cfr. ibidem

Contesto

Alexis de Tocqueville: scheda autore

Alexis de Tocqueville, Uno Sguardo Realista e Dubbioso sulla Sicilia, di Emanuele Gentile




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