Umani senza gloria
A proposito di: Umano, poco umano : Esercizi spirituali contro l’intelligenza artificiale / di Mauro Crippa e Giuseppe Girgenti. - Piemme ed., 2024. - 240 p. - (Saggi e attualità). - ISBN 978-88-566941-7.
“Il volume edito da Piemme si propone come un manuale di sopravvivenza dell’intelligenza umana rendendoci consapevoli delle qualità irriducibili dell’umano rispetto al tecnologico” (Adnkronos, 19/02/2024). Così inizia una delle tante recensioni apparse in questi giorni relativamente a Umano, poco umano di Mauro Crippa e Giuseppe Girgenti, rispettivamente direttore generale dell’informazione Mediaset e docente di storia della filosofia antica.
- Copertina di Umano, poco umano, di Crippa e Grigenti
Volumi sull’intelligenza artificiale nascono ogni giorno, stanno quasi superando per numero e fantasia quelli di cucina, quelli sulle diete, perfino i gialli. Chissà perché tutti vogliono dire la loro su un argomento tanto delicato quanto complicato, come se tutti volessero dire la loro sui buchi neri o sulle leggi della termodinamica. Credo si tratti dell’effetto Dunning-Kruger, che si è rivelato con particolare intensità nei tempi recenti del covid, quando il “picco del cazzaro” è stato abbondantemente provato da tutti quelli che ne sapevano più dei virologi e degli scienziati.
Ammetto che sono stata attirata, tra i tanti disponibili sugli scaffali delle librerie e nei siti web, dal titolo (non dagli autori, chiedo venia), che rimanda ovviamente a Nietzsche, un filosofo imprescindibile (ma da prendere con le molle) che nel suo Umano, troppo umano ci regalò (nel 1878, all’età di 34 anni) un elemento sorprendente: il dubbio. Del resto, anche Bertrand Russel diceva che il problema dell’umanità è che gli stupidi sono sempre molto sicuri, mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi. Credo sia proprio il dubbio l’anello di congiunzione tra le scienze cosiddette ‘dure’ e le humanities, perché è dal dubbio che nasce la ricerca della conoscenza. Ma mi ha attratta anche il sottotitolo, Esercizi spirituali contro l’intelligenza artificiale . Sono stata delusa su entrambi i fronti.
Del resto, cosa mi aspettavo? Il dubbio è totalmente assente, rimpiazzato da una serie di certezze granitiche che riportano l’uomo al centro dell’arena, pronto a combattere contro le cose stesse che ha costruito. Nell’epoca che ha riconosciuto i danni irreversibili dell’antropocene e che ha problematizzato espressioni come “la scoperta” dell’America o “le terre vergini”, pare che dobbiamo preoccuparci di ciò che è “poco umano”, cioè le macchine. E di qui una serie di dieci esercizi spirituali contro le macchine: che mi fanno un po’ sorridere, un po’ rabbrividire. Mi ricordano l’atteggiamento degli europei verso i nativi americani (correvano i secoli 600 e 700) descritti come animali, bestie, mostri, creature del demonio. Insomma, poco umani. O niente affatto umani.
A parte alcune intuizioni divertenti (come il gioco di parole FrankenstAIn, p. 6) e citazioni istituzionali ineccepibili (come quella del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, “dobbiamo fare in modo che la rivoluzione che stiamo vivendo resti umana”, 31/12/2023), il trattato sembra concentrarsi più sulla paura “non che la IA diventi come l’intelligenza umana ma semmai il contrario, che l’intelligenza umana smarrisca le sue caratteristiche” (p. 12). Ma quali sono queste caratteristiche? Ciò che è implicito in queste parole è che l’essere umano sia una gran brava persona. Ma siamo davvero brave persone? Leggiamo ancora: “dobbiamo capire chi siamo per difendere la nostra identità” (p. 17). Ecco che arriva la difesa dell’identità: qualcosa di già sentito. E difatti arriva anche, un po’ nascosta ma implacabile, l’accusa al tempo che sprechiamo in attività ritenute inutili e dannose invece di curarci della nostra “città interiore”: “A Stanford, come in Italia, si discute su gender e superamento della supremazia antropocentrica…” (p. 22). Eccola, la stoccata! E non finisce qui: c’è anche la “sfida che l’IA lancia all’antropologia, poiché mette in pericolo la centralità dell’uomo nel mondo” (p. 81).
Ma davvero? Ancora? La centralità dell’uomo nel mondo? A questo tendeva dunque tutto il ragionamento? A riportarci indietro di quanti secoli? A parte la mia convinzione che ogni antropolog* di buon senso inorridirebbe a questa distorsione delle finalità della loro disciplina, devo dedurre che lo scopo del volume è insegnarmi degli esercizi spirituali utili a ri-affermare la mia centralità di essere umano nel mondo contro un presunto nemico invisibile? Andate a chiederlo a un profugo, a un migrante, a un bracciante, a un orfano di guerra, a una donna abusata, chi è il loro nemico. Non credo vi diranno che sentono la loro identità minacciata né dai gender studies, né dall’intelligenza artificiale. Sono forse meno umani di noi? Valgono meno di noi come esseri umani?
Forse ciò che dà veramente fastidio agli autori, che dimostrano di conoscere molto bene i classici (anche se parlano spesso di Omero e Platone ma curiosamente non citano W. J. Ong, uno dei massimi linguisti e storici del pensiero umano, nonché gesuita), è che l’intelligenza possa esistere senza anima. Questo è un punto interessante, anche se non mi pare che avere l’anima – ammesso che esista – abbia finora impedito stragi, genocidi, omicidi, guerre, femminicidi, soprusi, stupri, violenze di ogni tipo, torture, dittature… e la lista potrebbe continuare. Lo stesso vale per il libero arbitrio, che mi pare abbia creato grandi cose (per esempio, l’arte) ma anche portato grande distruzione (per esempio, l’atomica). Eppure, gli autori ci invitano a tenere stretto il libero arbitrio “sottraendolo a qualsiasi intelligenza aliena che ce lo voglia togliere” (p. 177). Immagino che intendano “aliena” nel senso originario del termine (= straniera, estranea) e non in chiave fantascientifica, anche se certamente il termine oggi è più inclusivo che in passato ed evoca inquietanti realtà esoplanetarie.
Due ultime cose curiose. Una è l’accenno all’importanza della scrittura a mano, della grafia come segno distintivo individuale e allenamento di muscoli della mano oltre che di aree specifiche del cervello: su questo concordo al cento per cento. Mi fa specie però che il “diritto di scrivere a mano a scuola” venga avvicinato nostalgicamente ai bei tempi dell’insegnamento del “cucito e ricamo […] per la disciplina manuale delle ragazze" (sic, p. 191). L’altra curiosità è la “resurrezione” dei Beatles. Come molti sapranno, John Lennon e George Harrison sono stati riportati artificialmente in vita in un recente video musicale.
È uno dei tanti esempi di ciò che si può e si potrà fare con l’intelligenza artificiale, che piaccia o meno. (Tra parentesi: invito lettori e lettrici a leggere i tantissimi commenti di persone sinceramente emozionate. Sono assolutamente sovrastanti rispetto a quelli che criticano il fenomeno). Ciò che gli autori non dicono, quando sostengono la necessità di una nuova tanatologia, è che questa presunta “resurrezione” avviene solo da una parte. Cioè, è uno spettacolo. Loro, non sono mica risorti davvero: siamo noi che li vediamo come se fossero vivi oggi. Fa strano che in una trattazione che sconfina qua e là dalla tecnologia alla teologia (dopo tutto bastano due consonanti) si usi un termine che appartiene all’ambito della seconda senza fare un necessario distinguo… perché gli scettici attenti potrebbero pensare che anche quella vera, di resurrezione, quella con la R maiuscola, non sia stata bilaterale come ci hanno raccontato.
Comunque sia, comunque andranno le cose, è bene che se ne parli, della AI o IA, ma soprattutto che la si problematizzi da diversi punti di vista, e sempre col beneficio del dubbio. E vorrei dire a questi autori: l’intelligenza artificiale è qui. Facciamocene una ragione. Diamole un altro nome, un’altra sigla, se volete, ma è qui ed è qui per restare. E il fatto che possa essere o diventare migliore di noi, o almeno non peggiore, dipende solo da noi. Il problema è che noi non siamo dei bravi maestri. Se la nonnina preferisce Alexa, o Nadine, alla nipote in carne e ossa, non è colpa di Alexa o di Nadine. È colpa della nipote. Sono stati gli umani a portare la catastrofe climatica, guerre diffuse su tutto il pianeta, ineguaglianza e disparità nell’utilizzo delle risorse, odio, crisi delle democrazie.
L’invito ad allenarci spiritualmente contro la tecnologia è vano e pericoloso. È un colpo di coda neoluddista, neoantropocentrico, anacronista, tendenzioso. Ed è un’ammissione di sconfitta. Sarebbe anche una bella idea, quella degli esercizi spirituali, qualunque significato vogliamo dare alla parola “spirito”, ma io personalmente vedo avversari molto, molto più pericolosi per lo spirito. Vogliamo dirne uno? Il fatto che l’1% della popolazione mondiale detenga quasi la metà della ricchezza del pianeta. Delle due, me la farei amica, l’intelligenza artificiale, e la farei lavorare su un algoritmo che riduca la disparità: non solo la “asimmetria linguistico-cognitiva devastante” a cui gli autori accennano (p. 19), ma il ben più grave divario economico, sociale, sanitario. Se l’intelligenza artificiale (o aliena, o senz’anima) sarà al servizio del potere, sarà solo colpa degli umani che gliel’hanno permesso – o che magari l’hanno pensata e programmata proprio per questo.
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