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La storia che vive. Ricordo di Silvio Lanaro

“Il qualunquismo fa presto a trasformarsi in populismo e il populismo in fascismo: la libertà è difficile da conquistare, ma ancor di più da mantenere e far crescere". Ricordo di Silvio Lanaro.

di Giuseppe Tramontana - venerdì 12 luglio 2013 - 6559 letture

Ora la storia la racconto io ai miei studenti. E la racconto proprio come venne proposta da Silvio Lanaro, in un’aula luminosa del Dipartimento di storia dell’Università di Padova. Andavo a trovarlo di tanto in tanto e quel giorno aspettavo che terminasse la lezione per proporgli una conferenza su Eugenio Curiel da tenere nel nostro liceo. Siccome era sempre un grande piacere sentirlo, entrai nell’aula discretamente affollata e mi confusi tra gli studenti intenti a prendere appunti. Stava parlando della Francia all’indomani della fine della seconda guerra mondiale. Non so da dove fosse partito, ma, nel momento in cui cominciai a prestare ascolto stava raccontando della caccia,da parte delle nuove autorità democratiche, ai collaborazionisti, cioè a coloro che per paura, opportunismo convinzione, si erano schierati dalla parte dei nazisti. Le cose stavano andando come dovevano andare, diceva Lanaro. E per alcuni andavano peggio che per altri. Così attivisti, propagandisti e militari come Pierre Laval, Joseph Darnand, Marcel Bucard, Fernand de Brinon e Paul Chack venivano condannati a morte e da lì a poco fucilati. Ma non tutti facevano questa fine. Altri se la cavavano con condanne a vari anni di prigione o, in alcuni casi, all’esilio, come, ad esempio Abel Bonnard. Tra i collaborazionisti, un posto tutto particolare ce l’avevano gli scrittori, gli intellettuali. Uno, lo storico Jacques Benoist-Méchin, venne condannato a morte, ma graziato dal presidente Vincent Auriol; altri due, Henri Béraud e Lucien Rebatet, vennero graziati dal generale De Gaulle. Uno scrittore condannato a morte fu Robert Brasillach. Era bravo Brasillach, scriveva bene, aveva persino molto seguito. Ma si era distinto per la sua verve filofascista, per il suo impeto antipartigiano, insomma era stato uno zelante collaborazionista dei tedeschi, oltre che un ostinato e crudele antisemita. Saputo della condanna, gli intellettuali francesi - raccontava Lanaro – si mobilitarono per chiederne la grazia a De Gaulle. Molti erano cattolici o di sinistra, tutti antifascisti. Lo fecero per salvare un uomo di cultura, anche se la pensava diversamente da loro: il solito, nobile richiamo al principio del “non condivido ciò che dici, ma darei la vita affinché tu posa dirlo”. Così gente come Georges Bernanos, Jean-Paul Sartre, Albert Camus, Simone de Beauvoir, Maurice Merleau-Ponty, André Malraux si mobilitò e scrisse al capo del governo, cioè a De Gaulle. Il quale, però, non ne volle sapere. Anzi, non rispose neppure. Così la condanna venne eseguita e Brasillach fucilato. A questo punto, tutti cominciarono a chiedersi il perché. Perché De Gaulle non aveva risposto? E perché aveva negato la grazia proprio a Brasillach, quando di altri –magari, addirittura,più compromessi di lui – l’aveva concessa? Il generale non rispose. E non risponderà mai, almeno direttamente. Per avere qualche lume, bisognerà aspettare la pubblicazione delle Mémoires de guèrre, nel 1959. In quelle pagine, ripercorrendo quegli anni e ritornando sull’episodio specifico – tra l’altro, senza mai pronunciare il nome dello scrittore fucilato - il generale rispose che la fucilazione “di un noto intellettuale collaborazionista” era stato un monito per tutti gli intellettuali e, in generale, per tutti gli uomini dotati di talento giacché “da grandi capacità derivano grandi responsabilità”. Lanaro sorrise in quel suo solito modo sornione. Non so se sapesse che quella frase era diventa mitica grazie allo zio Ben, lo zio dell’Uomo ragno, ma si intuiva che a lui piacesse tanto. Pronunciarla e condividerla. Era bravo Silvio Lanaro, uno dei docenti che più mi hanno dato nel corso del mio apprendistato universitario. Ora non c’è più: è morto il 23 giugno scorso. Da tempo ammalato, alla fine ha ceduto.

Come ha scritto Nicolò Menniti Ippolito, sul Mattino di Padova, “se si pensa alla scuola storica padovana, si pensa quasi immediatamente a Silvio Lanaro. Perché nell’Università di Padova Lanaro ha studiato, perché qui ha insegnato, prima Storia del Risorgimento, poi Storia Contemporanea, perché qui ha fatto nascere una serie di studiosi che hanno seguito la sua lezione ed il suo metodo.” Allievo di Federico Seneca, si ritagliò ben presto un’esperienza di studio autonomo, che lo portò a legare intimamente Ottocento e Novecento italiani, al di là della frattura del secolo. Anzi, in alcune discussioni, insisteva – probabilmente a ragione – nell’individuare l’inizio del Novecento europeo – che a questo punto, con buona pace di Hobsbawm, si dovrebbe chiamare “secolo lungo”, come propose a suo tempo anche Giovanni Arrighi – nell’affaire Dreyfus, nel corso del quale – di nuovo! – assume connotati e compiti nuovi la figura dell’intellettuale impegnato.

Nato a Schio, Vicenza, nel 1942, questa sua provenienza ha avuto un significato profondo nel suo lavoro di storico, come ricordano i suoi allievi in Pensare la nazione, il libro a lui dedicato pubblicato pochi mesi fa da Donzelli, per i suoi settant’anni. Non a caso il suo primo grande contributo scientifico, Società e ideologie nel veneto rurale (1866-1898), pubblicato nel 1976 per i Quaderni delle Edizioni di Storia e Letteratura curati da Gabriele De Rosa, era dedicato alle peculiarità di un modello industriale fortemente radicato nella cultura rurale veneta. Quel primo libro fu importantissimo per la ripresa degli studi storici sul Veneto: “meditato, elaborato, documentatissimo”, come l’ha ricordato Mario Isnenghi. Qui, Lanaro andava oltre la lettura tradizionale, convinto, come sempre è stato, che bisognasse superare i fatti, per cercare nelle visioni culturali le radici profonde delle trasformazioni storiche. Ma in quel primo libro era contenuto anche un altro elemento dominante nel pensiero di Lanaro: una sorta di centralità del Veneto nella Storia d’Italia, che sembrava allora una vera e propria eresia. Ma era anche un libro di scoperte non solo contenutistiche, ma anche metodologiche, come ricorda sempre Mario Isnenghi: “Scoperte che danno vita a una serie di espressioni, di formule diventate poi di uso comune come ’modello veneto’, ‘fabbrica diffusa’, ma anche ‘transizione dolce’”. Ed invece è proprio partendo dagli studi sulla realtà veneta tra Ottocento e Novecento che Lanaro è andato convincendosi che la storia dell’Italia unita andasse ripensata radicalmente, a partire dai limiti di un liberalismo mai pienamente adottato. In quell’anno, il 1976, Lanaro cominciava ad insegnare “Storia del Risorgimento”. Ma il suo Risorgimento era fatto di analisi delle ideologie. Come quelle di Fedele Lampertico o di Paolo Lioy, figure allora considerate marginali ed invece “centrali – come ha scritto Nicolò Menniti - per arrivare a quella vera e propria svolta nella storiografia nazionale che è rappresentata da Nazione e lavoro, pubblicato nel 1979”. Con questo libro, egli accostava due termini che alla fine degli anni Settanta sembravano antitetici: la nazione (cara alla Destra), il lavoro (caro alla Sinistra), ma soprattutto intravvedeva nel formarsi del primo liberalismo italiano quella stortura che avrebbe portato irrimediabilmente al fascismo. Ipotizzava una storia d’Italia del tutto diversa da quella della narrazione storiografica ufficiale. Bobbio scrisse che era un libro bellissimo ma interamente sbagliato. Gli storici liberali, per motivi opposti, reagirono allo stesso modo. Nel libro, con un grande lavoro di cesellatura e intersezioni, di rimandi, approfondimenti ed analisi, trovano posto - accanto a giganti del calibro di Croce, Gobetti, Dorso, Sturzo, Salvemini e Gramsci – uomini, intellettuali, meno conosciuti, ma che con la loro azione ed il loro pensiero contribuirono a creare quella cultura borghese che fu poi l’intelaiatura necessaria per costruire e strutturare quella modernità pensata come “equipollenza alla nazione” (Salvatore Lupo). Così compaiono personaggi come Leone Carpi, “ebreo ferrarese, proprietario fondiario, cospiratore mazziniano, economista, agronomo, statistico e sociologo dilettante di singolarissimo acume” (ivi, p. 22), Corrado Gini, “padre delle scienze sociali italiane”, artefice di un “sistema di correlazioni tra demografia, antropometria, eugenetiche sociologia economica,istituite e rese affidabili ad una ad una - nessuna esclusa – dalle ‘certezze’ epistemologiche racchiuse nel metodo statistico” (pp. 44-45), Achille Loria, l’economista para-marxista maestro di generazioni di radicali. Vi compaiono anche Filippo Carli, Arturo Labriola, Paolo Mantegazza, Napoleone Colajanni, intellettuali e politici di primo e secondo piano. “Lanaro – ha scritto Salvatore Lupo – ambiva a scrivere una biografia collettiva anziché individuale (sul modello del Mussolini di De Felice, n.d.a.), intendeva dar voce a strati profondi e anche periferici della cultura”, che altrimenti, basandosi solo sul modello defeliciano, non sarebbero venuti a galla. Lanaro ricostruisce, insomma, la modernità del binomio nazione e lavoro ma non per questo prova a racchiuderla in parametri razionalistici. Sa che bisogna dare il giusto spazio al registro emotivo, scandagliando anche il terreno delle passioni: “la nazione che vuole riunificarsi con il lavoro lavora su visioni del futuro, mitologie, profezie”, dice ancora Lupo. Ma,soprattutto, Lanaro, come Asor Rosa in letteratura, aveva sovvertito gli schemi classici, criticando tanto la tradizione storiografica socialista quanto quella liberale, accusate di aver mitizzato un’Italia del tutto – astratta - diversa da quella reale. Il tempo però gli ha dato diede ragione: la sua lettura si è imposta. In Italia – come lui raccontava – la modernizzazione non è avvenuta secondo linee liberali, ma è stata resa possibile, sin dall’inizio, da forme di autoritarismo che sarebbero poi sfociate nella dittatura. Autoritarismi e compromessi. Dai governi La Marmora al ‘connubio’ Cavour-Rattazzi, dal trasformismo a Pelloux, dal giolittismo a Salandra a Mussolini. E’un lavoro straordinario, quello iniziato con Nazione e lavoro, che comincerà a dipanare il filo di un discorso mai interrotto, un filo che andrà avanti fino agli ultimi suoi libri: la nazionalizzazione dell’Italia e degli italiani, sospinta e promossa molto più di quanto non lo sia la loro democratizzazione. “Una democratizzazione – ricorda Isnenghi – condotta nell’universo socialista e cattolico;mentre i liberali rinunciano alla nazionalizzazione democratica.” In questo senso anche l’altro grande libro di Lanaro, la Storia dell’Italia repubblicana, pubblicato nel 1992 per i tipi della Marsilio (dal 2007 anche in versione mp3, con un successo straordinario in termini di download scaricati), si collega a questa lettura della formazione dell’Italia. Perché la stortura rimane: anche la nuova ondata modernizzatrice, quella del dopoguerra, risente, a suo avviso, di quei modelli paternalistici, autoritari, non pienamente democratici che caratterizzano l’Italia come nazione. Secondo Guido Crainz, in quel libro ”circola proprio l’idea che si fosse giunti davvero all’Epilogo.” All’Epilogo della Prima Repubblica, all’Epilogo di un’epoca. Era una lettura prismatica, quella di Lanaro, che metteva insieme ‘cronaca di palazzo’ e scetticismo collettivo, ribellismo individuale e qualunquismo da suk arabo. Giovanni De Luna lo criticò per non aver adeguatamente considerato l’apporto innovativo del movimento del ’68, ma, in realtà, ciò che lo storico padovano stigmatizzava era l’involuzione ‘corporativa’ di quel movimento, di come “una modernizzazione lasciata a se stessa scialacqua il superfluo della propria ricchezza – e talora anche il necessario – in un’orgia di autoaffermazione dei soggetti che ne sono stati protagonisti”, che ignora “sprezzantemente ogni mediazione politica e istituzionale”. Lanaro analizzava con occhio critico anche l’emergere dei nuovi modelli individualistici degli anni Ottanta. Davvero vennero alla luce all’improvviso, senza nessuna incubazione? E ancora: il 1992, con il suo tracollo, deriva solo dalla patologia degli anni Ottanta o affonda le radici in un periodo di più lunga durata? Come ha scritto sempre Guido Crainz, “in questo allargamento drastico dell’orizzonte non scompaiono certo le specificità essenziali degli anni ottanta, o alcuni tratti di essi che dobbiamo ancora comprendere appieno (le radicali trasformazioni intervenute nell’universo della comunicazione, ad esempio). Sfumano però fortemente le contrapposizioni e le rigide separazioni di decenni e climi culturali.” E tale impostazione, con il dialogo costante tra le acquisizioni della ricerca storica e gli strumenti delle scienze sociali e della letteratura, in un contrappunto fra documenti segnati dal massimo di oggettività presunta (le statistiche) e fonti provviste del massimo di soggettività dichiarata (le testimonianze letterarie), la ritroviamo nel volume precedente, L’Italia Nuova. Identità e sviluppo 1861-1988, il trait d’union tra Nazione e lavoro e la Storia dell’Italia repubblicana, pubblicato proprio nel 1988. Un libro per certi versi sorprendente, in cui Alfredo Oriani dialoga con Thomas Mann, Aristide Gabelli si interroga sul futuro degli italiani e la nuova Italia viene soppesata dagli sguardi ora consapevoli ora critici di Henry James e di Félix Narjoux, di Bolton King e di Thomas Okey, dello spagnolo Emilio Castelar y Ripoll e dei tedeschi Stieler, Paulus e Kaden. Nel frattempo, altre iniziative sono arrivate a maturazione. Nel 1984 l’Einaudi gli aveva affidato la realizzazione del volume Il Veneto, che inaugurava la sezione della Storia d’Italia dedicata alle Regioni. “Era il riconoscimento ad uno storico capace di dimostrare come la dimensione locale fosse indispensabile per raccontare la storia italiana”, scrive Nicolò Menniti. Quello che predispose lo storico padovano fu un libro vero, organico, non una raccolta estemporanea di saggi giustapposti: una raccolta di saggi di storia contemporanea ‘in scala’, non una collezione di studi di storia locale”, scrive egli stesso nella Premessa. Inoltre, come ricorda Carmine Donzelli, all’epoca coordinatore del progetto editoriale, Lanaro non si proponeva di cercare una “contrapposizione, ma una interazione tra la scala regionale e quella nazionale. E’ l’effetto combinato che lo interessa;attraverso quello si capirà meglio la storia del Veneto, mentre si capisce la storia d’Italia.” Il libro parte della stereotipo regionale, per determinarne il grado di verità o falsità: “Che cosa rappresentava fino a ieri, in sintesi estrema, il ‘Veneto’ per i non veneti?” si chiede in apertura. La risposta è fulminante: “In un paesaggio ad elevato tenore alcolico vi si avvicendavano parroci e alpini,pazienza laboriosa e amabilità goldoniana, moderazione politica e familismo rurale. Venezia, per comune ammissione, faceva parte a sé…”. Quello che appare l’asse portante dell’intero volume è il rapporto tra il Veneto rurale e la sua progressiva trasformazione nell’esperienza di una modernizzazione industriale spesso senza regole, sempre più capillare e imprevedibile. Ne esce il ritratto di una regione patria del disciplinamento operaio, capace di alternare solidarismo paternalistico e controllo sociale. E ne fanno conto,in tal senso, i saggi di Carlo Fumian e Giorgio Roverato. E questo modello ha il corrispettivo letterario nell’individuazione della linea letteraria maggioritaria in Vicenza, la città di Zanella e Fogazzaro, un “concentrato letterario dove, da cent’anni ed oltre, il romanzo nasce dal romanzo e la pagina dalla pagina”. In chiusura, il volume presenta il saggio Un modello stanco, scritto a quattro mani da Lanaro e Isnenghi, Da poco si è manifestato il primo successo elettorale della Liga Veneta. C’è da riflettere. Cosa c’è dietro all’epifenomeno razzistico, antimeridionale, dietro alle frasi che campeggiano sui muri o sui ponti dell’autostrada Serenissima (“Forsa Etna”, ”Fora i romani”, “A morte i teroni”)? Il fatto – dicono i due autori – è che “il sentimento di non appartenenza al sistema dei partiti evapora e sfuma in una non-appartenenza al sistema Italia (…) Questo chiamarsi fuori si esprime tanto con una desolidarizzazione del punto di vista statuale e grande-nazionale quanto con l’enfatizzazione del bozzolo di una ‘piccola patria’, e però nazione pur essa, il Veneto”. Insomma, si attaccarsi ad “un passato pre-unitario,un remoto e accertato statuto di popolo-nazione-stato”, da contrapporre all’appartenenza unitaria che si intende negare. Il tutto mentre “l’Italia è assente, come nazione e come stato. E’ il non-essere, la indebita forzatura istituzionale delle longevità storiche”. Ma la Liga, nella lettura di Lanaro e Isnenghi, non è solo un fenomeno rurale, segno e frutto di arretratezza culturale. Così come non è un fenomeno tutto moderno e persino post-industriale. E’, più che altro, “un processo di enucleazione di tutte le minoranze che l’Europa reprime”. E quindi,viene considerato un epifenomeno destinato a scomparire, ad essere riassorbito, “tutt’altro che all’altezza di un nobile domani”. E, oggi, a trent’anni dalla sua formulazione, chi si ricorda più di una simile – veridica - previsione?

In questo percorso aperto dalle riflessioni del volume collettaneo del 1984, si colloca anche il volume Patria, Marsilio, 1996. In quell’anno era stato tradotto in italiano e pubblicato da Baldini & Castoldi il volume di Kenichi Ohmae, La fine dello Stato-nazione, nel quale si canta il requiem per lo Stato nazionale, appunto, in nome di quella che viene chiamata globalizzazione. Lanaro risponde a questa impostazione. Le patrie e le nazioni non sono di certo eterne, ma “avranno esaurito il loro compito solo quando altre forme di organizzazione politica sapranno rispondere ai bisogni che attualmente sono esse a soddisfare”. Tale discorso, peraltro, era tanto più fondato e meditato in quanto non tralasciava di riconoscere l’importanza dell’ “addensamento dei flussi finanziari e delle economie virtuali”, così come il “veloce rimescolamento di quelle che potremmo chiamare orbite gravitazionali della vita associata”, mettendo in conto il fatto che “lo sviluppo delle comunicazioni, l’informatica, la multimedialità tendono irresistibilmente a saltare le frontiere”. “A suo modo – scrive Tommaso Detti – questo contributo parte da lì: assume che lo Stato nazionale non ha esaurito la sua funzione e si interroga sul ruolo e sulle conseguenze di uno degli aspetti del processo di globalizzazione che ne hanno in varia misura limitato la sovranità.” Ma Lanaro non combatte solo contro l’attacco dall’alto,cioè dal mondo globalizzato, allo Stato-nazione, egli, e più nell’immediato, porta il suo contributo nella battaglia contro la vuota retorica localistica che attacca dal basso lo Stato e, nello specifico, lo Stato unitario italiano. Insomma, il volume – non a caso intitolato per l’appunto Patria - vuole dimostrare in maniera inoppugnabile “il carattere puramente retorico e storicamente infondato delle rivendicazioni leghiste relative alla ‘Padania’”, come afferma Umberto Curi. Ed in questo senso, la pubblicazione di questo volume non fu l’unico suo impegno contro il dilagare del fenomeno leghista e delle sue letture pseudo-storiche volte a sostenere rivendicazioni dai forti connotati xenofobi e, verrebbe da dire, völkisch. In quel torno d’anni, attraverso una variegata serie di interventi, Lanaro partecipa attivamente alla demolizione della mitologia di una presunta identità storico-culturale del Veneto, mostrando, come ricorda ancora Curi, “la complessità e l’interna articolazione dei processi storici che hanno condotto all’attuale configurazione regionale. Anche in questo frangente, come già accaduto in occasione delle analisi relative alla Democrazia Cristiana, una maggiore sensibilità da parte delle forze politiche della sinistra avrebbe potuto consentire di riversare nella battaglia politica diretta le acquisizioni di un’indagine storica di alto livello.” Libro ’politico’, quindi, nel senso nobile dato a questo termine da Gramsci. Ma libro – così come il precedente L’Italia nuova – carico di sapere e riflessioni, spunti e collegamenti, attraversamenti letterari e navigazioni trasversali, riunendo in un filo continuo l’Inghilterra di Disraeli e Ruskin e la Francia di Ernest Renan e del ‘tigre’ Clemenceau, l’anarchismo umanista di Alexandr Herzen e il federalismo di Cattaneo, il sionismo di Herzl e l’anelito democratico di Carlo Rosselli o Piero Gobetti.

Nel 2011, è uscito,peri tipi della Donzelli, l’ultimo lavoro di Silvio Lanaro, Retorica e politica. Alle origini dell’Italia contemporanea. Si tratta di una raccolta di saggi scritti tra il 1971 e il 1998 e apparsi a suo tempo su riviste specialistiche come ”Quaderni storici”, “Meridiana” e “Cheiron”, oltre a quelli pubblicati negli Annali einaudiani o in libri collettanei. Per l’autore, retorica e politica sono un intreccio onnipresente nella storia d’Italia,poiché la retorica è stata da sempre intrecciata alla politica e d in modo pervasivo e continuativo ha condizionato il modo di far politica nel nostro Paese. Per retorica, quindi, come spiega Carlotta Sorba, egli intende quel “potere, creativo o manipolativo che sia, del linguaggio in tutte le sue forme, una sorta di gusto insistito per le parole e per i suoni che a suo dire percorre tutti i passaggi cruciali della vita collettiva del paese e ci consente di leggere tra le loro pieghe.” In questi saggi, pertanto, è possibile individuare un sottofondo moderno e inquietante fatto di percorsi concettuali e comunicativi che indicano un interesse specifico per il potere della parola. “Messi uno accanto all’altro – continua Sorba – questi saggi ci parlano di un itinerario di indagine che si snoda tra il periodo postunitario (con un’accentuazione sugli anni settanta e ottanta dell’Ottocento) e il fascismo, mostrando un asse interpretativo forte sviluppato lungo rivoli diversi.” E’ un percorso, che seppur accidentato e ricco di sfumature e rimandi, lega insieme i tre elementi chiave della produzione lanariana sulla storia d’Italia ossia il protezionismo, il nazionalismo e il fascismo. Ed in che modo, partendo dall’utopia cosiddetta protezionistico-conservatrice si sia arrivati a Piazza Venezia, passando per il nazionalismo, l’irredentismo, l’interventismo e le trincee.

Uomo ‘impolitico’,come lo definisce Umberto Curi, aveva scelto la cultura – e non solo quella storica – come il luogo privilegiato per l’impegno e per rinnovare la resistenza in tempi di facile oblio, di indifferenza morale e di qualunquismo socio-politico. “Il qualunquismo fa presto a trasformarsi in populismo e il populismo in fascismo: la libertà è difficile da conquistare, ma ancor di più da mantenere e far crescere,” mi disse una volta, parlando di Lega,dopo esser partiti dai fatti di Aigues-mortes. E, indispensabile a far prosperare questa libertà era, a suo avviso, la cultura. Compresa la cultura storica. Era convinto che i giovani sono “affamati di storia”, come diceva lui, “tanto più affamati quanto più è avara l’offerta pubblica di storia.” E si rammaricava che i suoi studenti giungessero tra i banchi universitari praticamente digiuni di storia contemporanea: “arrivano a malapena alla prima guerra mondiale, alla seconda – toh! - al massimo, e lì si fermano: il resto, per loro, è tutto da decifrare, scoprire e ricostruire.” Al che, io gli rispondevo che, con i miei studenti del liceo, arrivavo a tempi molto vicini, ai governi Berlusconi, all’Afghanistan, persino alla ’primavera araba’… “A Berlusconi!?” mi chiedeva istrionico, con un sorriso beffardo sotto il baffetto brizzolato e un lampo sarcastico negli occhi, “allora veda che ai sui ragazzi non gli passi la voglia di studiarla, la storia.” Cercherò, professore.


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