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Giovanni, il mio prof

Il ricordo di Gianni Marino, in occasione dell’Omaggio reso a Francofonte il 19 febbraio 2012.

di Giuseppe Tramontana - lunedì 20 febbraio 2012 - 8699 letture

“Bisogna avere l’occhio di pesce”. Questa è una frase che i miei studenti si sentono ripetere spesso. Da me. Ormai, la maggior parte sa che cosa intendo e non commenta, ma annuisce semplicemente. Non è sempre stato così, però. Quando l’ho pronunciata la prima volta, il ragazzo a cui era rivolta mi guardò con aria interrogativa: non capiva. E dovetti spiegare. Dovetti spiegare che quella non era la citazione di un grande filosofo o di un grande scrittore, di quelli che si studiano a scuola e ti fanno passare le notti insonni, ma – ed è la cosa più importante, nella vita - di un grande uomo: era la frase di un mio ex professore di storia dell’arte, una persona speciale e perbene, come perbene, fino all’estremo, sanno a volte essere gli idealisti. E gli idealisti siciliani in particolare. Giovanni Marino, si chiamava. Spiegai a quello studente che quella frase voleva significare che non bisognava accontentarsi mai delle visioni unilaterali, degli stereotipi, delle interpretazioni bell’e pronte, ma occorreva gettare uno sguardo a tutto tondo sul mondo, farsi incuriosire, farsi prendere, come dicono i ragazzi. E farsi prendere vuol dire farsi un’idea autonoma e critica, ma anche condividere, in qualche modo, il destino di questo mondo, senza pregiudizi, senza supponenza, con libertà e partecipazione, armati solo della voglia di capire. Perché, dissi a Riccardo, è facile ridere o piangere delle azioni degli uomini, ma la cosa più importante è comprenderle. E’ Spinoza, osservò lui. E’ Spinoza, confermai io, ma è anche Terenzio, ma è soprattutto Giovanni, il mio prof. di storia dell’arte. Ma capire non significa giustificare, continuai, ché ci sono cose che non si possono giustificare. Le ingiustizie, i soprusi, le violenze, le dittature non si possono giustificare ed è a favore delle vittime, degli innocenti, dei desaparecidos, che ci è data la speranza. A Riccardo quelle parole non erano nuove. Lo anticipai: lo so, pensi a chi abbia detto qualcosa del genere: Gandhi. Ma io, prima di leggere Gandhi, ho udito quelle parole dal mio prof. di arte, Giovanni. Se quest’estate io e gli altri veniamo a trovarla giù in Sicilia, ce lo fa conoscere questo suo prof.?, mi chiese. Sorrisi, scuotendo il capo, e dovetti spiegare perché non fosse possibile.

Giovanni lo conobbi al Liceo. Al Gorgia di Lentini. Lo conobbi in ritardo. Sia perché, benché fosse conosciuto in paese, io non ne avevo mai sentito parlare, sia perché rientrò ad anno scolastico abbondantemente iniziato. Prima di lui, un susseguirsi monotono e stanco di supplenti palesemente affetti dalla sindrome della minorità scolastica: avvertivano che, in virtù delle sole due ore di insegnamento settimanale, storia dell’arte era una cenerentola, un po’ come religione, e di conseguenza partivano già demoralizzati, poco incisivi, compromissori e quindi poco inclini a farci lavorare e pretendere serietà e impegno. E per noi “era Parigi”, come si diceva a Piazza Dante. Poi tornò Giovanni. Alto, capelli corti e scuri, occhiali, calmo, flemmatico, riflessivo. Qualcuno sussurrò di problemi personali, disagi, ma noi non ci badammo. A quell’età, o non badi alle voci oppure ti condizionano per il resto della vita. E così conoscemmo Giovanni. Il liceo, era palese, per lui era una passione. Passione civile soprattutto. Un lavoro intellettuale, anzi da intellettuale, a tutti gli effetti. Non era parcheggiato lì. C’era perché voleva esserci e voleva che anche noi ci fossimo, partecipi, attivi, critici, curiosi, insomma con l’occhio di pesce! Capimmo subito che era intelligente Giovanni. Inquieto, insofferente a volte, ma intelligente. Indagava, studiava e capiva. E poi veniva da noi. A regalarci qualcosa. Sì, così, a regalarcela. Spiegava con chiarezza quello che aveva capito. Con fluidità e brillantezza, persino. Che ti veniva da chiederti da dove prendesse tutta quella energia se un attimo prima, in corridoio, sembrava afflosciarsi alla fine di ogni parola. E questo valeva tanto per i classici, Fidia, Paolo Uccello, Giotto, quanto per la modernità e la contemporaneità, da Michelangelo a Klimt, da Caravaggio a Warhol. E man mano che percepiva che capivamo, che stavamo avvicinandoci al suo mondo, diventava sempre più loquace, cominciava a fare riferimenti e collegamenti più audaci, meno scontati, più ricchi, più articolati, complessi. Ed ecco che facevano capolino ora Leopardi ora Verdi, magari accompagnati da Jacques Maritain o Heinrich Boll, da Cesare Pavese o Carlo Levi. Quando la sua ora finiva, ci sentivamo insieme più ricchi e più poveri. Ricchi di sapere, poveri di lui. A volte, ti capitava di incontrarlo in corridoio o ti dava un passaggio fino al paese perché c’era l’immancabile sciopero dei bus. Parlando parlando, gli raccontavi che eri stato ad una festa o ad una manifestazione pacifista e lui ti spiegava, perché rumore, luci, musica abbigliamento delle ragazze fossero così com’erano, perché il simbolo pacifista fosse proprio quello. E ti raccontava del Beatles e delle minigonne, di Mary Quant e di De Andrè… E poi, ancora ed apparentemente senza alcun collegamento, ti ritrovavi a sentirlo mentre ti ammoniva sul valore della cultura, dello studio, persino del latino e del greco, e sul ruolo della Chiesa che in America Latina sta sia dalla parte degli oppressi che degli oppressori. Per un attimo ti sentivi spaesato: come eravamo arrivati a quel punto? Che importava! Giovanni dava un senso a quello che avevi visto o studiato. Un senso più profondo e articolato. Come quando ci fece capire come non fosse per nulla normale che ci fossero dei bambini di undici, dodici, tredici anni impegnati stabilmente a lavorare nei bar come garzoni, abbandonando la scuola. Noi non ci avevamo fatto mai caso. Era normale. Si andava al bar, si chiedeva la granita e c’era il Paolino, il Giovannino, il Salvuccio di turno, undicenne, dodicenne, grembiule bianco sporco legato alla vita, che te la portava. Era normale. Troppo normale. Noi guardavamo, ma senza vedere. Ci indignavamo per la sorte dei bambini brasiliani, ma non vedevamo quelli del paese. Fu lui a farci aprire gli occhi. Fu lui a farci comprendere che anche questo era terzo mondo, anche questa miseria, anche questo humus e concime per la malapianta della pessima politica, delle raccomandazioni, del malaffare.

Poi ci parlava dei luoghi che aveva visto e amato. Di Venezia, della Cappella degli Scrovegni, di Perugia con quelle “chiese tutte uguali”, della Parigi del ’68 e della Primavera di Praga, ma anche dello scempio artistico a Francofonte, dei politici incompetenti, opportunisti, dalla dubbia onestà intellettuale e non, ci parlava di arte, di musica, di Schoenberg, Rossini, Puccini, ci parlava della Repubblica di Weimar e del colpo di stato in Cile, di Camilo Torres e dei generali argentini, di Brecht e di Diego Rivera e Frida Kahlo, della rivoluzione sandinista e dei colonnelli greci, di Doblin e Panagulis, di Oriana Fallaci e Rosa Luxemburg… Ce ne parlava con attenzione e passione, frugandosi dentro, con parole che significavano, per noi, una vista più attenta, più consapevole, più libera, una vita attiva e presente. Avevamo la sensazione che non smettesse mai di studiare. E forse era proprio così. Di certo, doveva faticare non poco a farlo e, in effetti, aveva un tale rispetto per il lavoro, anche intellettuale, degli altri che immaginavo che, prima di pronunciare anche una sola frase su un libro o un articolo, leggesse tutti i testi di quell’autore e anche i testi che eventualmente l’autore aveva a sua volta studiato. Sembrava una lumaca ed era una locomotiva, sembrava un lago tranquillo ed era una camera magmatica. Una volta, in classe, in terza liceo, capitò un episodio.

Avevamo letto sul manuale, il mitico Argan, che Marc Chagall, il grande pittore, subito dopo la rivoluzione russa, si era procurato un paio di chilometri quadrati di stoffa rossa per farne delle bandiere: un omaggio alla rivoluzione, appunto. Noi, supponenti e immaginifici (o scioccamente idealisti - anche se ci consideravamo materialisti e tutto il resto) ne fummo esaltati: il gesto ci apparve bello, rivoluzionario, straordinariamente simbolico. Ma Giovanni scosse il capo: “Forse sarebbe stato meglio fare delle camicie per i poveri…” insinuò realisticamente. Noi non capimmo, ci sembrò banale, ordinario, poco epico insomma. Sorrise e, quasi con dolcezza, si sottrasse alla disputa e, con poche parole ben ponderate, ci dicesti che solo con il tempo avremmo compreso qualcosa delle lotte e delle rivoluzioni, del perché si fanno e del perché si vincono o si perdono. Oggi lo Stato nato da quella rivoluzione non c’è più da un pezzo e, chissà!, forse quelle bandiere al posto delle camicie c’entrano con la sua fine. E la tua lungimiranza ha avuto ragione. Su Chagall, sulle camicie, sulle rivoluzioni e anche su di noi.

Poi, uscito io dal liceo, ci rivedemmo fuori, a far politica insieme. Troppo poco il tempo, anche per imparare ancora probabilmente. Ma, in fondo, questa, è un’altra storia. O forse no: è la stessa, ma vista con occhi diversi, non so pieni di rabbia, dolore o impotenza. A volte la vita è beffarda. O tragica. O stupida. Non so. Fatto sta che, in un mondo in cui, si dice, c’è spazio per tutto e tutti, idealità e saggezza ne trovano solitamente poco, troppo poco. Così solo un alito, un soffio, in certi momenti, separa la vita dalla morte, la gioia dalla tristezza, la voglia di continuare dalla convinzione di non farcela. Un enigma resta l’uomo, e sottile come un capello la ragione… E decidesti di salpare alla ricerca del più grande forse, ché morte è il velo che chi vive chiama vita; ci si addormenta e il velo si solleva.


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