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Le “Piccole donne” e l’etica protestante

Piccole donne / di Louisa May Alcott ; a cura di Stella Sacchini ; postfazione di Nadia Terranova ; traduzione di Stella Sacchini. - Milano: Feltrinelli Editore, 2018-2023 – 368 pp. - (Universale Economica I Classici). - ISBN 978-88-07-90288-8.

di Angelo Guida - sabato 16 novembre 2024 - 1455 letture

Per petizione di principio i maschi evitano la lettura di Piccole donne di Louisa May Alcott ritenendolo un libro per sole “femmine”. Il titolo, in questo senso, non aiuta. Né aiuta l’elenco dei suoi traduttori italiani, costituito in prevalenza da “traduttrici” con una sparuta presenza maschile.

È ora di mettere fine ai pregiudizi maschilisti e “infecondi” (Gadamer docet): la letteratura di “genere” (mai come in questo caso la definizione è azzeccata) semplicemente non esiste perché, volendo citare Oscar Wilde, esistono solo libri scritti bene e libri scritti male. Il romanzo della Alcott è considerato unanimemente un classico. E tale è non solo apoditticamente ma anche in quanto – per dirla con Italo Calvino – «non ha mai finito di dire quello che ha da dire». È dunque un libro per tutti, per uomini e donne, per ragazzi e adulti.

È però vero che le protagoniste assolute del romanzo sono le donne. Il titolo completo, nell’originale, è Little Women or Meg, Jo, Beth and Amy. E l’“ideologa” della famiglia, anche se non compare nell’intestazione, è la madre.

La figura paterna è relegata sullo sfondo, è distante: il pater familias presta servizio al fronte, in veste di cappellano militare, nelle file dei nordisti, durante la guerra di Secessione americana. Per gran parte della storia si palesa nelle comunicazioni epistolari e fa la sua apparizione in carne e ossa solo verso la fine della narrazione, quando fa ritorno a casa per motivi di salute. Ma anche se non c’è, il genitore non è completamente assente perché è lui che ha dettato, di comune accordo con la moglie, i principi basilari su cui si fonda il ménage familiare: il «coltivare le proprie energie, la laboriosità e lo spirito di indipendenza».

Punto di partenza del libro è sostanzialmente quell’“innocenza” che contraddistingueva i primi immigrati provenienti dalla Gran Bretagna, soprattutto puritani, e dall’Europa protestante che fuggivano dal vecchio e corrotto continente per rifondare i principi della convivenza civile secondo la nuova etica religiosa. L’America per loro non era solo la “terra dell’abbondanza”, era la Nuova Gerusalemme, la meta finale del pellegrinaggio attraverso cui le anime si redimono per ottenere infine la grazia divina. La traversata dell’Atlantico era per i Padri pellegrini e i loro seguaci una sorta di rito battesimale rinnovato che purificava e riconciliava con Dio, liberando così nuove energie all’interno di un territorio ancora vergine (ma il progetto comprendeva, ahimè!, anche la “purificazione” dei “selvaggi” pellirosse ai quali, per alcuni, bisognava perfino negare l’appartenenza al consorzio umano). Per inciso, nel libro della Alcott sono frequenti i richiami al Viaggio del pellegrino dello scrittore inglese John Bunyan che narra, sotto forma di allegoria, il viaggio dell’anima del protagonista, Cristiano (un nome parlante, ovviamente), dal mondo terreno alla Città Celeste.

La famiglia March è una “famiglia modello” in cui la ragione puritana è antitetica alla violenza e agli istinti brutali. Al suo interno vigono la solidarietà, la generosità, l’empatia e l’operosità.

Secondo la teoria di Max Weber la stratificazione culturale, in questo caso specificatamente religiosa, può costituire la base della stratificazione economica e di quella politica. Nella sua opera più famosa, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, sostiene che il sistema economico nato nei paesi occidentali è stato il frutto della pressione psicologica esercitata sui credenti dalla dottrina della predestinazione dominante nell’ambito del calvinismo. I fedeli erano stati così spinti a lavorare duramente e metodicamente non per avidità ma per dimostrare a se stessi e ai loro simili che il proprio successo era il sintomo della grazia di Dio, la conseguenza del fatto di essere dei predestinati dal Signore.

Perciò, all’interno della famiglia March sono gli ideali di matrice religiosa, a cui aderiscono i genitori e che vengono trasmessi alle figlie, a influenzare l’organizzazione economica della compagine medesima fondata essenzialmente sul lavoro. E in particolare sul lavoro domestico, svolto con cura e con metodo, parte di quella che noi oggi chiamiamo “economia reale”.

Delle quattro figlie, tre di loro perseguono ambizioni artistiche: Jo (alter ego di Louisa) vuole diventare una scrittrice, Beth una musicista e Amy una pittrice. La mamma le lascia fare. Ma non smette mai di stimolarle a cucire, a cucinare, a svolgere le faccende di casa. Il motto principale della genitrice (lo stesso di Abba May Alcott, madre dell’autrice) è «Non perdete la speranza e tenetevi occupate». Da questo procedono i vari corollari: «il lavoro è una benedizione e un conforto», «Il lavoro è salutare e ce n’è per tutti; tiene lontano la noia e i guai», «è contro il regolamento starsene con le mani in mano», «non sprecare le vacanze», «pensa solo a fare il tuo dovere; e avrai la tua ricompensa», «la vera felicità può abitare in una casetta umile, dove si lavora per il pane quotidiano e qualche piccolo sacrificio rende più dolce i pochi piaceri che si hanno». Alla fine, poi, di un celebre capitolo significativamente intitolato Esperimenti, le sorelle dopo avere deciso di non lavorare per un’intera settimana – non senza aver previamente ottenuto il consenso della capofamiglia ad interim – si ritroveranno a constatare che il proprio tentativo di mettere su un «sistema “tutto riposo e spasso”» è miseramente fallito e che la mamma aveva ragione quando le aveva avvertite che «giocare solo senza lavorare è brutto quanto lavorare senza giocare». La morale conclusiva è dunque: «meglio avere qualche dovere e vivere un poco anche per gli altri» piuttosto che starsene a oziare o a fare i propri comodi senza alcun costrutto.

Anche se l’universo microeconomico della famiglia March è fondato sull’economia riproduttiva è comunque speculare a quello macroeconomico e produttivo del capitalismo americano delle origini, quello “sano”, ovvero al netto dei traffici illeciti, dello schiavismo e del genocidio delle popolazioni native. Tutt’altra cosa rispetto al capitalismo finanziario che ha generato disuguaglianze, bolle speculative e crisi di immani dimensioni, come quella del 2007-2008, e «che ha annientato l’economia reale, cannibalizzando il lavoro, distruggendo i diritti, destrutturando le democrazie» (Massimo Giannini, Terminator il banchiere. La macchina inarrestabile della finanza mondiale, "La Repubblica", 30.10.2013, p. 47).

Piccole Donne non è semplicemente un libro con ambizioni pedagogiche e moraleggianti, improntato sul buonsenso e sul “buonismo” (cosa che, in ogni caso, non guasta in quest’epoca di imperante “cattivismo” e aggressività). I risvolti narrativi del romanzo implicano, anche se indirettamente, considerazioni di carattere politico. Basti pensare che l’autrice – come la madre, Abba May Alcott – era una suffragetta, una femminista ante litteram, e una fervida sostenitrice dell’abolizionismo. In merito a quest’ultimo aspetto è importante far presente che combatté quell’abominio non con altisonanti proclami ma aiutando concretamente, insieme alla propria famiglia, alcuni neri a fuggire – tramite la rete clandestina Underground Railroad – dagli stati schiavisti del sud verso gli stati abolizionisti del nord.

Sono Louisa May Alcott e i suoi cari, e quelli come loro, i veri interpreti dell’American Dream che, pur con il suo esibito ottimismo, ha connotati progressisti, pluralisti e inclusivi. Ma adesso quel sogno è offuscato da abusi di potere, minacce, vendette, deportazioni di massa e sovvertimenti costituzionali. Quel sogno rischia di trasformarsi in un incubo. E forse il peggio deve ancora arrivare…


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