Truman Capote, “A sangue freddo”
A sangue freddo / di Truman Capote; prefazione di Andrea Vitali; traduzione di Alberto Rollo. – Milano: Garzanti Editore, 1966-2020 – 432 pp. – ISBN 978-88-11-60877-6.
Complice anche l’omonimo film (1961) di Blake Edwards, con Audrey Hepburn e George Peppard, Colazione da Tiffany (1958) è il libro che ha reso celebre Truman Capote. Ma quello che gli ha conferito l’immortalità in ambito strettamente letterario è senza dubbio A sangue freddo (1965). Con quest’opera, l’autore si piccò di aver inventato ex novo un genere, la nonfiction novel. In realtà non si trattava di una novità assoluta. I germi del romanzo-verità erano già presenti nella “terza pagina” dei quotidiani, nelle features (fatti di minuta cronaca locale, poco rilevanti, a cui di solito è dedicato un trafiletto o poco più, che diventano interessanti e si trasformano in “servizi speciali” se trattati con tecniche narrative tese a metterne in evidenza il lato emozionale) e nelle opere di alcuni suoi illustri precursori: Zola, Twain, Dickens, Crane ed Hemingway, tanto per fare qualche nome. È verosimile però che il termine lo abbia coniato Capote e che il genere sia stato “canonizzato” dall’autore medesimo e da Norman Mailer.
- Copertina di A sangue freddo, di Truman Capote
La nonfiction novel (romanzo-reportage o romanzo-verità) e il New Journalism (giornalismo narrativo) sono pressappoco coevi (ma, al di là delle sinossi ufficiali, non sono forse romanzi-verità anche Cristo si è fermato ad Eboli, scritto tra il 1943 e il 1944, di Carlo Levi e l’opera “concentrazionaria” di Primo Levi, Se questo è un uomo, scritta tra il 1945 e il 1947?) e sono il frutto di un do ut des, di uno scambio reciproco, tra due generi letterari: il romanzo e il giornalismo. Il secondo prende in prestito dal primo le tecniche narrative e inventa il New Journalism, il primo prende in prestito dal secondo gli strumenti di indagine (l’inchiesta, innanzi tutto) e inventa la nonfiction novel.
Truman Capote, in una breve nota che precede il testo di A sangue freddo, ci tiene a precisare che «Tutto il materiale che, in questo libro, non deriva dalla mia personale osservazione è riconducibile a documenti ufficiali o è il risultato di interviste con le persone direttamente coinvolte».
Il romanzo è dunque il frutto di interviste, minuziose analisi documentali e accurate indagini sul campo, durate più di un lustro, effettuate dall’autore con l’aiuto della sua collega e amica d’infanzia Nelle Harper Lee, diventata famosa proprio in quegli anni con Il buio oltre la siepe. Capote accumulò migliaia di pagine di appunti che selezionò e condensò in un libro di circa quattrocento pagine.
La storia, a grandi linee, è ampiamente nota: il romanzo racconta la strage compiuta da due balordi, Richard Eugene “Dick” Hickock e Perry Edward Smith, che trucidano barbaramente i quattro membri della famiglia Clutter residenti in una fattoria nei pressi della cittadina di Holcomb – nella Finney County, di cui è capoluogo Garden City, nello stato del Kansas. La freddezza e la ferocia con cui i due compiono il massacro fa venire in mente gli anomic types dei romanzi di Cormack McCarthy (Luca Briasco, Americana, pp. 188-190): sradicati, primordiali, indifferenti alle regole della convivenza civile, figli della violenza che godono solo nel dominare gli altri, senza alcun rispetto per la vita umana. Ma che tuttavia, nel caso in esame, sono stati, nella realtà concreta, degli esseri umani in carne e ossa che, sciaguratamente, hanno fatto quello che hanno fatto. E l’avrebbero fatta franca se un detenuto, ex compagno di cella di Hickock, non avesse confessato alla polizia di aver parlato, tempo prima, all’amico Dick della tenuta di un certo Mr. Clutter per cui in passato aveva lavorato. I criminali vengono acciuffati, processati, condannati a morte e impiccati.
Il libro adotta, in parte, il linguaggio cinematografico. Si apre con un lungo piano sequenza su cui si innesta una voce fuori campo che descrive la cittadina di Holcomb e il paesaggio circostante utilizzando un tono assertivo e ultimativo («un insulso amalgama di edifici tagliato in due dai binari della Santa Fe Railway, […]. Dopo la pioggia, o quando la neve si scioglie, le strade, senza nome, senz’ombra, senz’asfalto, passano da uno spesso strato di polvere a un catastrofico mare di fango»), e svolgendo anche considerazioni di ordine socio-economico («HOLCOMB BANK, La banca è fallita nel 1933 […]. […] la Holcomb School, un bell’istituto che rivela un dato che la comunità sembra dissimulare: i genitori che mandano i figli in questa moderna scuola “integrata”, con un qualificato corpo docenti […], sono, per lo più, benestanti. […]. L’agricoltura è sempre un business a rischio»). Alcuni “fotogrammi” di questa sequenza ricordano i dipinti di Edward Hopper: «Tutto è piatto e la vista si spinge così lontano da togliere il fiato; […], un bianco torreggiare compatto di silos […]. […] Più su, sull’autostrada, ci sono due stazioni di servizio». La scena si interrompe con un flashforward: quattro colpi di fucile che violano «il consueto tessuto sonoro della notte di Holcomb». Si torna indietro nel tempo e si passa così a un close-up su Mr. Clutter, facoltoso agricoltore che abita nei dintorni della cittadina, da cui prende l’abbrivio la descrizione della sua famiglia e della fattoria in cui vivono i suoi quattro membri: Herbert William Clutter, la moglie Bonnie Fox e i figli Nancy e Kenyon. Per sommi capi si parla anche delle altre due figlie – Beverly ed Eveanna – viventi altrove. Al capoverso successivo inizia poi la descrizione dei due criminali e il racconto delle loro vite.
Riprendendo il discorso sull’impiego delle tecniche cinematografiche, la prima sezione del libro è, in gran parte, occupata dal montaggio parallelo delle vicende riguardanti la famiglia Clutter e quelle concernenti i due delinquenti (G.Fink, M. Maffi, F. Minganti, B. Tarozzi, Storia della letteratura americana, pp. 503-504) finché le loro esistenze non si intersecano e non scoppia la tragedia.
L’intertestualità e la multimaterialità sono due dei caratteri distintivi del romanzo in questione e della nonfiction novel in generale e si esplicano qui sia nascondendo fra le pieghe della narrazione la documentazione utilizzata, sia citando esplicitamente – anche se ciò avviene abbastanza di rado – documenti vari, in particolare articoli di riviste e quotidiani.
Capote cerca di mantenere il “sangue freddo” sforzandosi, il più possibile, di descrivere i fatti con obiettività.
Ma per quanto di sforzi di narrare i fatti per quel che sono, “nudi e crudi”, per quanto – in nome dell’oggettività – cerchi di mondare il racconto da elementi di “artisticità” letteraria ed extraletteraria, non si può dire che l’autore ci riesca del tutto. Ad esempio, quando utilizza un termine ricercato, egira, per indicare la vita on the road dei criminali – come fa rilevare nelle sue «Considerazioni a margine» il traduttore –, o nelle descrizioni dei paesaggi che richiamano alla memoria i dipinti di Hopper.
Anche se l’autore cerca di rendersi il più possibile assente dal contesto narrativo, il suo sforzo non è completamente ripagato. Capote (che nel racconto non menziona mai se stesso) ammette, nel corso di un’intervista, che il suo punto di vista si manifesta comunque negli argomenti scelti e nel modo in cui vengono trattati («I make my own comment by what I choose to tell and how I choose to tell it»). Non sempre è possibile mantenere il “sangue freddo”!.
Nella storia che si racconta non si richiede affatto al lettore la sospensione dell’incredulità, non si ha a che fare con vicende frutto dell’immaginazione: i fatti sono purtroppo realmente accaduti, sono incisi nella carne e nel sangue degli esseri umani che li hanno vissuti e/o subiti.
Secondo i propri canoni, il New Journalism, oltre a soddisfare le cinque W (Who, What, When, Where, Why) del giornalismo tradizionale, attraverso la narrazione deve suscitare empatia nel lettore. Mutatis mutandis, lo stesso vale anche per la nonfiction novel.
E ciò che A sangue freddo (che non è un’opera così distaccata e asettica come vorrebbe la vulgata) chiede al lettore è soprattutto empatia. In primis, empatia per le vittime. Particolarmente toccante è la scena in cui Mr. Clutter, in punto di morte, chiede pietà per la povera moglie, le cui precarie condizioni psichiche sembrano costituire l’unico “neo” della famiglia apparentemente “perfetta” da lui capeggiata: «Gli ho legato i piedi, e poi le mani ai piedi. “Troppo stretto?” ho chiesto. E lui ha detto di no, ma ha chiesto, per piacere, di lasciar stare sua moglie. Non c’era bisogno di legarla, non avrebbe urlato o tentato di scappare. Ha detto che stava male da anni e anni, e stava giusto facendo qualche piccolo miglioramento, ma un’esperienza come questa poteva provocare una ricaduta». E il romanzo in questione reclama empatia anche nei confronti degli assassini, senza giustificare in alcun modo l’atroce crimine da loro commesso. Il punto di vista dell’autore, a tal proposito, sembra coincidere, almeno in parte, con quello di Alvin Adams Dewey, il detective del Bureau of Investigation di Garden City: «Le vittime avrebbero ben potuto essere uccise da un fulmine. Con una sensibile differenza: che avevano patito un prolungato terrore, che avevano sofferto. E Dewey quelle sofferenze non poteva dimenticarle. Nondimeno, gli era possibile guardare all’uomo che gli sedeva al fianco senza rabbia – semmai con un briciolo di comprensione – dato che la vita di Perry Smith non era stata, quel che si dice, rose e fiori bensì un miserevole, agghiacciante e desolato trascorrere da un miraggio a un altro miraggio. La comprensione di Dewey, però, non era così profonda da lasciar spazio né al perdono né alla compassione. Sperava di vedere Perry e il suo compare impiccati – impiccati schiena contro schiena».
Comprensione sì, ma solo per il disagio esistenziale che contraddistingue le vite dei due criminali. E nessun perdono per loro, di fronte alla Legge, per l’orribile delitto perpetrato. Non è possibile sapere se l’ultima parte dei pensieri attribuiti al detective sia stata condivisa dall’autore. Ma, quando si parla di Stati Uniti d’America, è bene tenere a mente il fattore “pena di morte” (non è anch’essa un omicidio “a sangue freddo”, violenza che genera altra violenza?) per comprendere i limiti del sogno americano e del sistema democratico a cui ha dato vita.
In quel tempo, altri delitti del genere furono commessi e un editoriale del Telegram, riportato nel libro, dipinge un quadro a tinte fosche ma disgraziatamente realistico: «C’è chi pensa che gli occhi dell’intera nazione siano puntati su Garden City durante questo sensazionale processo per assassinio. Ma non è così. Basta poco più di un centinaio di chilometri a ovest da qui, in Colorado, e son davvero poche le persone che sono a conoscenza di questo caso – se non per il vago ricordo dell’assassinio di alcuni membri di una famiglia benestante. Questa è una triste considerazione sullo stato del crimine nel nostro paese. Da quando furono trucidati i quattro membri della famiglia Clutter lo scorso autunno, parecchi altri non dissimili omicidi multipli hanno avuto luogo in diverse zone del paese. Solo nei pochi giorni che hanno preceduto il processo hanno conquistato la prima pagina almeno altri tre massacri. La conseguenza è che questo crimine e il processo che ora si celebra sono solo uno dei numerosi casi di cui la gente ha letto e che ha dimenticato…». Appare inevitabile ritenere queste righe come un memento su un altro grave problema che, senza sosta, dalle proprie origini fino all’epoca attuale, affligge gli Stati Uniti d’America: l’incontrollata e nefasta proliferazione delle armi fra la popolazione civile.
Tornando al romanzo, Truman Capote indugia, in particolar modo, sul passato e sull’infanzia difficile di Perry Smith, un mezzosangue, figlio di un irlandese dal carattere violento e di una cherokee alcolizzata che tradisce e abbandona il marito, maledicendolo e portandogli via i figli, e svolgendo in seguito il mestiere di prostituta. A questo poco edificante quadretto familiare vanno aggiunti un fratello e una sorella morti suicidi. Così facendo l’autore sembra chiedere inconsciamente empatia anche per se stesso, per la sua infanzia difficile (questa visione delle cose trova un addentellato nella battuta proferita dal Capote personaggio protagonista del film Truman Capote. A sangue freddo (2005) di Bennett Miller, che, riferendosi a Smith, dice: «È come se fossimo cresciuti nella stessa casa. E un giorno lui è uscito dalla porta sul retro e io da quella davanti»). Truman, figlio di genitori divorziati, fu abbandonato dal padre e lasciato in balìa di alcuni parenti e della madre che vedeva a intermittenza, soprattutto in occasione degli incontri “galanti” di quest’ ultima con i propri amanti, durante i quali veniva rinchiuso nelle stanze degli alberghi. Non è difficile mettersi nei panni degli altri quando si sono patite le medesime orribili sofferenze. E, in circostanze simili, è quasi impossibile mantenere il “sangue freddo”.
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