Vita e omissioni di Newland Archer, gentiluomo

L’età dell’innocenza / di Edith Wharton ; a cura di Sara Antonelli ; traduzione di Sara Antonelli. - Milano : Feltrinelli Editore, 2017. – 378 p. - (Universale Economica. I Classici). - ISBN 978-88-07-90274-1.
Se non ci fosse stato il film di Martin Scorsese – con Daniel Day Lewis, Michelle Pfeiffer e Winona Ryder –, L’età dell’innocenza (1993), l’omonimo capolavoro (1920-1921) di Edith Wharton (1862-1937), nonché uno dei capolavori assoluti della letteratura americana, sarebbe rimasto quasi completamente ignorato dal grande pubblico.
- Copertina di L’età dell’innocenza, di Edith Warthon
L’opera, che fece della Wharton la prima donna vincitrice del premio Pulitzer (1921), è una spietata incursione nel mondo dell’alta società newyorchese della seconda metà dell’Ottocento. Mondo alla quale l’autrice era appartenuta (nata da una ricca famiglia della metropoli statunitense, i Newbold Jones, sposò il banchiere Edward Robbins Wharton da cui in seguito divorziò mantenendone il cognome) e da cui fuggì nel 1907 per rifugiarsi in Francia, dove visse fino alla fine dei suoi giorni, anticipando così la fiumana di artisti expat americani che, negli anni ‘20 (Ernest Hemingway, Gertrude Stein, Francis Scott Fitzgerald, Man Ray, Djuna Barnes, tra i più noti e i meno noti), prese la stessa direzione.
Il romanzo è ambientato nella cosiddetta Gilded Age che va dagli anni ’70 dell’Ottocento agli inizi del Novecento: non si tratta di un’“età dell’oro”, come traduce qualcuno, bensì di un’“età dorata”, ossia “placcata d’oro”. L’appellativo trae origine dal titolo di una celebre opera di Mark Twain che descrive un’epoca in cui i gravi problemi sociali degli Stati Uniti erano occultati dalla sottile patina costituita dalle crescenti e ostentate ricchezze delle classi dominanti.
Volendo tentare un’estrema sintesi, la trama è molto semplice: il protagonista, Newland Archer, s’illude di amare A (May Welland), a cui è destinato, scopre di essere appassionatamente innamorato di B (Ellen Mingott Olenska) ma finisce per sposare A.
All’inizio del racconto, il giovane è promesso sposo di May Welland. La ragazza, per lui il miglior partito possibile, gli “spetta di diritto”, è stata a lui destinata dalle famiglie di entrambi che hanno “progettato” e programmato il matrimonio della coppia. E Newland trova la cosa così ovvia e ineluttabile da far “naturalmente” coincidere i suoi desideri con quelli della sua famiglia. Questo genera in lui l’illusione di essere realmente innamorato della futura moglie. Almeno fin quando non incrocia lo sguardo di Ellen, cugina di May, ritornata a New York dall’Europa, e in fuga da un marito violento, fedifrago e probabilmente pervertito. In un primo momento, manifesta nei suoi confronti un lieve moto di ripulsa sociale in quanto percepisce la nuova arrivata come una donna «indifferente ai dettami del Buongusto» e lo infastidisce sapere che, in ambito familiare, frequenta la sua promessa sposa. Salvo, poi, ricredersi e diventare suo paladino alla prima occasione utile («“[…] ha avuto la sfortuna di fare un matrimonio disgraziato, […] non capisco perché debba nascondersi come se la colpevole fosse lei. […]. Chi altri se non lei ha il diritto di rifarsi una vita? Sono stanco degli ipocriti che vorrebbero seppellire viva una donna della sua età solo perché suo marito preferisce la compagnia delle prostitute”»), giungendo perfino a proclamare che «“Le donne dovrebbero essere libere… libere come lo siamo noi”». E, nel frattempo, intuisce che «il suo matrimonio sarebbe diventato simile a quelli che lo circondavano: un blando rapporto di interessi materiali e sociali che resisteva per ignoranza da un lato e per ipocrisia dall’altro».
Ma i suoi buoni propositi nei confronti di Ellen sono destinati a rimanere pii desideri. Infatti, Newland commette la sua prima grave omissione quando lascia che i suoi enunciati protofemministi rimangano lettera morta esimendosi dall’opporsi, dallo sciorinare e imporre le sue idee nel momento in cui, dietro sollecitazione dei familiari della fidanzata, uno dei soci anziani dello studio legale presso cui lavora lo spinge o, meglio, lo costringe a convincere Ellen a rinunciare al divorzio per non dare scandalo e non mettere in imbarazzo la famiglia di May. E, per inciso, al lettore stupisce apprendere quanto New York, oggi una delle città più “liberal” del pianeta, fosse all’epoca tremendamente bigotta.
Come ho già detto altrove (Buck o la scoperta dell’inconscio), Newland Archer è una persona che «decide di non scegliere» e «si crogiola nei clichés, nelle aporie e nei chiasmi (“Dopotutto nelle vecchie usanze c’era del buono”, “C’era del buono anche nel nuovo ordine”)». La vita che si costringe a vivere è una non-vita costellata di reticenze, rinunce e omissioni. Come un tronco d’albero che galleggia sulla superficie di un corso d’acqua si lascia fluitare, inerte, verso una meta prestabilita. All’inizio della narrazione viene presentato come un “dilettante” a cui «pregustare un piacere futuro […] procurava spesso una soddisfazione più intensa che realizzarlo». Un personaggio indolente e apatico che – pur sapendo che nella vita e altrove c’è qualcosa di ben più sensato dei frusti rituali dell’alta società newyorkese – non riesce a far altro che seguire e applicare meticolosamente le stolide regole della propria tribù di appartenenza. E lo fa con metodica attenzione anche alle più frivole minuzie, come quando non si dà premura di prendere posto con puntualità nel suo palco riservato all’Academy of Music perché “non sta bene” arrivare presto all’Opera. In generale, si fa «languidamente trascinare dagli eventi». E, d’altronde, è «Meglio restare in superficie, secondo la vecchia abitudine di New York». La musica in sé non rientra nel novero dei suoi interessi, ammesso che ne abbia veramente qualcuno. Va all’opera “per farsi vedere”, perché è quello il suo posto, in mezzo a i propri simili, perché la posizione che occupa nel palco del teatro è simbolicamente quella riservatagli all’interno dell’ordine economico e sociale della metropoli in cui vive. Anche la letteratura è da lui vissuta come un piacere epidermico, un semplice strumento d’informazione o tutt’al più alla stregua di uno status symbol. Quasi sbava quando gli arriva una cassa di libri («che aveva atteso con impazienza») dall’Europa, da lui ammirata come una terra densa di novità, intellettualmente fertile e stimolante. Ma la letteratura non è veramente parte della sua esistenza perché non riesce a spingerlo verso un reale cambiamento. In fin dei conti, Newland non è che un bas-bleu al maschile.
L’apatia è uno stato d’animo e al tempo stesso una qualità negativa che, per definizione, implica l’assenza di passioni, la mancanza di volontà. Ed è l’apatia a dominare anche nello studio legale in cui Newland lavora, se il suo si può chiamare veramente “lavoro”, e in cui siede «con svagata indolenza nella stanza a lui riservata nello studio Letterblair, Lamson and Low». Tant’è che «Il suo simulare un’attività professionale» non riesce «a ingannare nessuno». Nell’ambito dello studio legale non è nient’altro che uno dei giovani agiati, privi di ambizioni, che «per un certo numero di ore al giorno» siedono «alla scrivania per eseguire compiti insignificanti o semplicemente per leggere i giornali». Il privilegio indefettibile è lo stigma della classe sociale parassitaria a cui appartiene.
Beninteso, Newland non è un cattivo soggetto: «il giovane non aveva un cuore vile né meschino». Ha buoni sentimenti, è onesto, ha senso di responsabilità, prova empatia e pietà per chi è in difficoltà, e, in particolare, ovviamente… per la «“povera Ellen Olenska”». Anche se in merito a quest’ultimo punto è bene ricordare, come aveva rilevato Alexis De Toqueville nella sua Democrazia in America, che in quel paese, all’epoca in cui scriveva, vi era sì carità e solidarietà ma solo tra i bianchi stessi mentre questi erano incapaci di provare compassione dei confronti dei neri e dei pellirosse. Obiter dictum, tutti i personaggi del romanzo sono rigorosamente bianchi e la cerchia sociale a cui appartengono («una società dedita esclusivamente a barricarsi contro la spiacevolezza») li rende assolutamente impermeabili a indesiderate intrusioni “multietniche” (tutt’al più capita di imbattersi in una cameriera di “razza meridionale”, di carnagione bruna ma pur sempre classificabile come “bianca”). Comunque, l’impressione che si ricava dalla descrizione del personaggio Newland Archer è che l’adempimento delle responsabilità è da lui percepita come un inesorabile incedere verso l’annullamento della volontà e della fastidiosa e, a volte, dolorosa facoltà di scegliere, una sorta di nirvana sociale imposto dal rango a cui si appartiene. A dominare su tutto, prepotente, è il Super-io. E quando questo si impone, perentorio, non c’è spazio neanche per il differimento del piacere che è destinato a estinguersi lentamente o rapidamente, con un certo margine di tolleranza, a seconda delle circostanze e delle istanze sociali o familiari. Newland non reprime il desiderio per posticiparlo in modo tale da ottenere una maggiore soddisfazione in un secondo momento, lo reprime per lasciarlo andare via inutilmente, per osservarne – inerte – la lenta angosciante estinzione, per essere tagliato definitivamente fuori dalla portata del piacere che è il vero elemento destabilizzante dell’ordine sociale fatuo e artefatto in cui si muove.
Anche se può contare sul sostegno della sua famiglia è solo, solo come la sua amata Ellen, che individua la causa della loro solitudine nel vivere in mezzo a delle «persone gentili che ti chiedono solo di fingere!».
Come ho già detto, la vita del protagonista dell’Età dell’innocenza è costellata di reticenze, rinunce e… omissioni.
La sua prima grave omissione l’ho descritta sopra.
La seconda cruciale omissione di Newland si verifica quando May gli fa presente – per un malinteso – che, nel caso in cui amasse un’altra, avrebbe comprensione per i suoi sentimenti e lo lascerebbe senz’altro libero di seguire la sua strada, ma lui – di contro –, anestetizzando le sue più intime pulsioni, fa pressione su di lei per accorciare i tempi del fidanzamento e sposarsi al più presto possibile. E viene accontentato. Anche se poi, nel frattempo, il promesso sposo si gioca la sua ultima carta con Ellen dichiarandole il proprio amore. Ma quella lo respinge rimproverandolo di aver reso la cosa del tutto impossibile chiedendole di rinunciare al divorzio; richiamandolo, quale nuova incarnazione del Super-io, al principio di realtà; e lasciandolo a bocca asciutta con una frase memorabile: «Non potrei amarti se non rinunciando a te». E lui, qualche tempo dopo, controbatte, compendiando così il proprio stallo esistenziale (quasi una dolce vendetta): «Io sono l’uomo che ha sposato una donna perché un’altra gli ha chiesto di farlo», «Tu mi hai fatto vedere per la prima volta la vita vera e nello stesso istante mi hai chiesto di continuare ad averne una falsa».
Un’altra decisiva omissione del protagonista è quella in cui rinuncia a seguire l’amata in Europa dopo che la moglie gli ha annunciato di essere in attesa di un figlio.
E infine l’omissione definitiva di Newland Archer, descritta alla fine del libro: il suo mancato incontro con Ellen, in Europa, dopo essere rimasto vedovo. Ha deciso, spronato da uno dei suoi rampolli, oramai adulti, di rivedere la sua antica fiamma nel suo appartamento parigino ma, all’ultimo momento si tira indietro e lascia che il figlio vada a farle visita da solo. Lo fa per senso di responsabilità, per considerazioni meramente utilitaristiche o semplicemente per apatia? Prendendo per buona quest’ultima ipotesi, c’è da pensare che, mentre Newland si lascia trasportare dalla corrente, un’improvvisa risacca lo riporta indietro rendendo la sua esistenza definitivamente irrevocabile. Quando finalmente potrebbe aprire la propria vita verso quel futuro che, fino a quel momento, gli è stato negato, fa in modo di essere inesorabilmente risospinto nel passato. Mi viene in mente uno degli Aforismi di Zürau di Franz Kafka: «Da un certo punto in là non vi è più ritorno. Questo è il punto da raggiungere» (trad. di Roberto Calasso).
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