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Claudia Durastanti, “La straniera”

La straniera / di Claudia Durastanti. - Milano: La nave di Teseo, 2019 - 285 pp. - ISBN 978-88-346-1685-7.

di Angelo Guida - venerdì 20 settembre 2024 - 784 letture

L’autrice, figlia di genitori sordi che si rifiutano di adoperare la lingua dei segni («la lingua dei segni è teatrale e visibile, ti espone in continuazione. Ti rende subito disabile»), nel narrare le proprie vicissitudini, prende l’abbrivio dalla mitologia familiare raccontando la genesi e la dissoluzione del rapporto fra il padre e la madre. I due, che «parlavano la stessa lingua fatta di rantoli» e «irradiavano differenza», si conoscono a Roma (ciascuno dei due dà la propria versione del loro primo incontro). Si trasferiscono poi a Brooklyn (è lì che nascono i loro due figli) dove vengono accolti e sostenuti dai genitori di lei. Infine divorziano – perché «L’amore tra sordi non esiste, è una fantasia da udenti. […]. La somiglianza viene prima di tutto» – e la donna con i figli, un bambino e una bambina (Claudia ha, all’epoca, sei anni), si trasferisce in un paesino della Val d’Agri, in Basilicata.

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Copertina di La straniera, di Claudia Durastanti

Inutile dire che la disabilità della madre pesa come un macigno sui due fratelli, indicati dagli abitanti del piccolo centro lucano come i figli della muta o, nella migliore delle ipotesi, dell’a’mercan. Dietro suggerimento del ragazzino adottano allora come strategia di sopravvivenza il mimetismo: il fratello «era convinto che per resistere in quella piccola comunità dovessimo andare bene a scuola, frequentare la messa tutte le domeniche, […] farci vedere con la mamma il meno possibile». Lei elabora un’ulteriore strategia: la fuga nell’altrove. Scopre la letteratura e, una volta fatta questa scoperta decisiva, sa che non può tornare più indietro. Si rifugia in un mondo virtuale che prende corpo in soffitta dove legge di tutto, da Topolino a Ultima fermata a Brooklyn.

Ma non mancano le vicende che la costringono a far ritorno alla cruda realtà come il proprio rapimento, in quinta elementare, ad opera del padre – già protagonista di continue intemperanze, di atti al limite e al di là della legge e di tentati suicidi – che la usa come mezzo di scambio per poter riallacciare la relazione con l’ex moglie. Claudia (in realtà il nome della protagonista non viene mai rivelato) trascorre abitualmente le vacanze estive nel borough newyorkese e qui, nel corso degli anni, assiste impotente a svariate tragedie familiari tra le quali la morte per AIDS di due suoi zii e la progressiva discesa di una sua cugina nell’inferno della tossicodipendenza.

La vita della bambina, della ragazzina, dell’adolescente e della donna poi si dipana così in una continua altalena, un’incessante in-beetweenness tra l’Italia e Brooklyn, tra la realtà effettuale e quella virtuale (costituita soprattutto dalla musica e dalla letteratura che entreranno a pieno titolo nella sua vita reale in quanto lei, in seguito, diventerà giornalista musicale e scrittrice), tra il dolore e una grigia felicità ravvivata dalla vivida luce dell’ironia («Non c’è un singolo atto di violenza della mia vita che io non riesco a ricordare senza ridere»).

Come Autobiogrammatica di Giartosio anche il libro della Durastanti prende le mosse dal Lessico familiare di Natalia Ginzburg e va oltre. Però, mentre l’opera di Giartosio rimane confinata nella comfort zone del milieu borghese, La straniera si muove nei territori accidentati di quello piccolo borghese e proletario (l’autrice non adopera mai questi termini). E perciò la protagonista non può fare a meno di osservare che nel suo «lessico familiare tutto veniva fuori per ferirsi». Capisce solo più tardi che nominare può essere anche un atto d’amore.

La condizione di indigenza si somma a quella di estraneità («Io e mia madre eravamo senza contesto»), alla sensazione permanente di unheimlich (concetto di ascendenza freudiana e heideggeriana che letteralmente indica la sensazione di non-essere-a-casa). Essere stranieri non significa tout court avere il passaporto di un altro paese, implica tutta una serie di accezioni: è uno stigma, una postura, una condizione psichica, una proiezione dell’io. Per i componenti di quel nucleo familiare, in particolare, significa pure rimanere intrappolati in un loop spazio-temporale, essere costretti a contrarsi negli interstizi di un’angusta esistenza e al contempo provare l’ardente desiderio di fuggire via, di vagare liberi dalle costrizioni e dalle condizioni date. Lo status di straniero è comunque contiguo a quello di cosmopolita, ovvero a quello di colui che vive per scelta la propria vita lost in transit & lost in translation e vaga perennemente – per dirla con Prigogine – da una struttura dissipativa all’altra ben sapendo che non potrà fermarsi mai, che non esiste un centro di gravità permanente. In ogni caso, la sensazione di straniamento dal contesto in cui, di volta in volta, si trova coinvolta – o sarebbe meglio dire heideggerianamente gettata (geworfen sein) – non abbandona mai la protagonista, la perseguita persino quando ha a che fare con le proprie passioni: a Londra dopo aver chiesto a un tizio notizie a proposito dei tour che faceva in California, all’epoca dei Dead Kennedys (una punk band di San Francisco, n.d.r.), all’improvviso si rende conto che «per quanto fossero affascinanti quei racconti, non mi appartenevano. Non era la mia storia, era la loro».

La straniera sembrerebbe appartenere alla categoria del Bindulgsroman. Ma è veramente così? In effetti, secondo i canoni, il romanzo di formazione dovrebbe possedere due requisiti: la maturazione del protagonista attraverso una quest sul senso della vita, della propria vita, e l’approdo a un nuovo contesto sociale o il ritorno al contesto sociale e familiare di partenza con cui si salda o si rinsalda il senso di appartenenza attraverso l’accettazione, l’integrazione e il compromesso. A prima vista, nel libro della Durastanti non si ha l’impressione che tutto ciò si verifichi, il percorso esistenziale della protagonista sembrerebbe insomma privo del secondo requisito: lei rimane estremamente critica nei confronti dei genitori e delle rispettive famiglie biasimandone gli sprechi finanziari (soprattutto il comportamento colpevole di vivere al di sopra dei propri mezzi: si innervosisce per le spese della madre per l’«acquisto di cose che non poteva permettersi»), lo spreco delle vite, gli eccessi, i vizi («l’inganno era comune nella sua famiglia», dice, riferendosi in particolare a quella della madre), i pregiudizi e le credenze finte di cui si nutrono. E da questo minuzioso esame da entomologa ne trae a contrario degli insegnamenti utili sia ai fini della propria formazione personale che della propria maturazione artistica, e osserva: «Lavoro, e mi rendo conto che non ho mai visto i miei genitori farlo per davvero. Non pativo tanto la loro disoccupazione e pigrizia perché queste alimentavano i pregiudizi sociali, ma perché l’inattività li faceva sentire tristi. […] C’è una pratica di entrambi che mi innervosisce: l’accumulare oggetti casuali per progetti artistici che non porteranno mai a termine. […] Ognuno di loro ha un deposito potenziale di bellezza che non userà mai, e nel frattempo ammuffisce. I miei genitori non avevano lavori, solo del tempo libero, e non hanno saputo usarlo» (i due covano vaghe aspirazioni nell’ambito delle arti figurative). Questa analisi spietata delle vite e delle personalità del proprio padre e della propria madre denota forse anaffettività e mancanza di empatia? Ad un esame superficiale parrebbe di sì. Ma proviamo un po’ a metterci nei panni della protagonista. Nell’ambiente in cui vive non ha né il tempo di cedere al lusso del piagnisteo né di piangersi addosso. La sua prima istanza è l’istinto di sopravvivenza e per provvedere ai propri bisogni materiali e intellettuali deve sgomitare e barcamenarsi, in tutti i modi possibili, tra le miriadi di difficoltà quotidiane. In realtà, la protagonista, che è tutt’uno con la scrittrice, sa bene che, per un buon esito della propria opera, deve evitare i sentimentalismi e le smancerie e questo le riesce benissimo. Ciò non significa però che dietro il velo di Maya della scrittura non ci siano sentimenti veri: quelli appartengono alla vita reale, non vengono ostentati ipocritamente e speciosamente – per fare bella figura – e nel corso del romanzo fanno capolino solo di tanto in tanto, tra le righe. La protagonista ritorna periodicamente a casa della madre. Per quanto difficile possa essere, cerca comunque in tutti i modi di recuperare il proprio rapporto con il padre. A volte il lettore quell’empatia e quei sentimenti dissimulati deve desumerli da piccoli indizi disseminati qua e là: li ritrova, ad esempio, quando la figlia osserva che «Non si sa bene come intervenire nei non udenti che soffrono di acufeni, ci vuole pazienza nel cercare di dirottare l’attenzione da quel suono, ma mia madre vive da sola quasi tutto l’anno, e quel suono e tutto quello che ha» oppure quando non replica alla genitrice che, nel tentativo di dissuadere una coppia di amici dal praticare l’amniocentesi sul nascituro, sbotta: «“Allora devono nascere tutti normali come voi?”». E questo senza omettere i passaggi più duri della narrazione come quando la narratrice confessa a se stessa di aver desiderato che i propri genitori fossero stati internati. La vita è fatta di ambiguità: far finta che nell’animo umano non esista una duplicità di sentimenti è come sbattere la porta in faccia alla realtà. Le relazioni personali si nutrono di continue transizioni tra comprensione e sopportazione, amore e odio, simpatia e antipatia, e l’unico vero problema è l’indifferenza, lo stato permanente di ibernazione della sfera affettiva che niente e nessuno riesce a dissolvere.

La straniera è, a tratti, pure un libro divertente, di levità calviniana, che sa ben utilizzare e dosare l’arma salvifica dell’ironia. A titolo di esempio, alla fine dei due brevi capitoli in cui descrive con humor lo strambo utilizzo che la madre fa del web, la narratrice conclude in maniera assai brillante, con un’esibita e spudorata asserzione politically incorrect: «Mia madre è sempre la stessa, ma io sono la figlia di donne diverse. All’inizio era un’handicappata. Poi è diventata una disabile. Per attimi è stata una donna diversamente abile, ma tutti siamo diversamente abili. A un certo punto non era che una pazza. Oggi è una persona che sta su internet» (il corsivo è mio).

Come tutti ricordano, questo romanzo è un memoir. E anche se l’autrice mette le mani avanti (quasi una excusatio non petita) osservando che «L’autobiografia […] è la bastarda dei generi letterari» – lasciando intendere insomma che il suo memoriale, come tutti i memoriali, è un prodotto letterario di serie B – almeno in questo non datele credito perché il suo è solo un espediente retorico. C’è memoir e memoir, e La straniera è un libro scritto dannatamente bene. Non cede mai ai sentimentalismi, alle lamentazioni e alle soluzioni preconfezionate. E se, a volte, la protagonista ostenta crudeltà e indugia nel cinismo noi tutti sappiamo che, nel suo caso, quelli sono i frutti avvelenati di esperienze dolorose e di profonde ferite che solo l’indomito amore (l’aggettivo è dell’autrice) può lenire.

Il passato rievocato da Claudia, fatto più di ombre che di luci, è da lei reso fecondo e facondo, è un faro che illumina il presente e l’avvenire. Non viene rievocato per poi essere messo da parte con fastidio, è impresso una volta e per sempre nella pagina scritta perché rimanga vivo e vivido a futura memoria, quella propria e quella altrui. Non è una costrizione ma una costruzione per i tempi a venire. Claudia non è solo calviniana, è anche calvinista: plasma se stessa e la propria esistenza attraverso il lavoro, il suo lavoro: la scrittura.


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