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Charlot & Strehler

Giorno di Natale, la Svizzera in comune per registrare il luogo della dipartita, venti anni di differenza per un giorno di ricorrenza.

di Piero Buscemi - mercoledì 27 dicembre 2017 - 8856 letture

Certi personaggi hanno nella loro vita la sceneggiatura di un film mai scritto. Molto più emozionante delle loro stesse opere, indimenticabili agli occhi degli spettatori. Anche il loro epilogo sembra sia stato concepito dal genio creativo di un altro disegnatore di destini. Un regista che ha voluto giocare sulla vita invidiata, ammirata ed osannata di due interpreti del palcoscenico esistenziale dell’essere, immaginato e concepito per deliziare i sensi percettivi degli astanti, ammutoliti davanti al miracolo dell’interpretazione che si fa quotidiano, dove sprofondare in un sogno senza risveglio. Quel sogno che, gli intrecci narrativi consegnati nelle mani degli attori, trasformano in realtà tangibile che si impadronisce del buio delle insicurezze nascoste da trascinarsi fino a casa, all’uscita dal teatro o dalla sala da cinema. Fino alla prossima interpretazione.

Charlie Chaplin e Giorgio Strehler sono morti nello stesso giorno di Natale. Il primo quaranta anni fa. Il secondo, venti. Uno strano scherzo del destino. Voluto dal nostro immaginario, liberato da inibizioni del quieto vivere, a porci di fronte ad uno stesso giorno per ricordare due maestri delle due arti figurative della fantasia dell’artista che si traveste da uomo, illudendosi di poter scegliere a quale palcoscenico consegnare la propria vita.

Se Chaplin, con il suo Charlot, ha saputo trasformare il miracolo delle immagini che scorrono in sogno ad occhi aperti, dove risvegliarsi in una realtà malinconica e ricca di umiltà umanizzata, scomparsa nei decenni da quel piccolo vagabondo dinoccolato, in cerca di un sorriso da ricevere in cambio ad un gesto di gentilezza, già in quelle sequenze in bianco e nero, anacronistica e beffeggiata. Se Strehler ha riconsegnato all’uomo il ruolo di personaggio principale delle sue reinterpretazioni dei testi che ha messo in scena, con l’intento di focalizzare l’attenzione dello spettatore sul senso di quel frammento di vita, rappresentato nel suo teatro.

Se un destino capriccioso ha voluto custodirli nel nostro bagaglio di ricordi, da doverli ricordare nello stesso giorno, rimane innegabile la sensazione di aver vissuto le emozioni che hanno saputo farci riflettere sulla semplicità dei particolari che incidono le nostre esistenze, al di là di qualsiasi folle ambizione del nostro percorso terreno, nel quale troppe volte, ci perdiamo i momenti migliori.

Se noi, poveri comuni mortali, comprendessimo il messaggio dalle opere del genio creativo od interpretativo che questi due artisti hanno saputo lasciare ai posteri, riusciremmo a trovare parte delle risposte che le nostre menti contorte si ostinano a porsi, senza una reale volontà di trovarne un senso. Da quell’omino addormentato sulla panchina di un parco immaginario, in una città immaginaria, in una piazza immaginaria, scacciato da un poliziotto insensibile, che tanto ci ha fatto sorridere e commuovere da quei silenzi emotivi di Charlot, siamo riusciti ad inventarci un altro finale meschino delle nostre "opere" di crudeltà e stupida arroganza.

A guardare la stessa carriera di Giorgio Strehler, ci soffermiamo a sorprenderci come una casualità o, forse, una più semplice scelta artistica, lo condusse a dirigere L’albergo dei poveri di Maksim Gor’kij nel 1947 e, nello stesso anno, Arlecchino servitore di due padroni di Carlo Goldoni. Due testi particolari e apparentemente discordanti, ma insieme accostabili alle mute movenze del vagabondo, bombetta bastone e baffetti, con le quali la povertà diventa storia, emozione e riflessione. Diventa protagonista. Protagonista come quel Monsieur Verdoux, altro personaggio creato dalla sensibilità di Charlie Chaplin, proprio nel 1947.

La casualità di una strana somiglianza dei due artisti, sulla quale le foto sotto riportate lasciano lo spazio per fantasticare, la rivendichiamo come nostra scelta artistica.

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