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Parthenope

Un film di Paolo Sorrentino, con Celeste Dalla Porta, Stefania Sandrelli, Gary Oldman, Silvio Orlando, Luisa Ranieri, Isabella Ferrari, Peppe Lanzetta. (Genere Drammatico, - Italia, 2024, durata 136 minuti).

di Piero Buscemi - giovedì 23 gennaio 2025 - 1475 letture

Paolo Sorrentino non fa sconti, né emotivi, né etici. Come del resto ha già dimostrato nei suoi precedenti film. Le storie vanno raccontate per intero, nella loro essenza di crudeltà e verità scomoda. Quella che fa alzare lo spettatore, a metà della proiezione, disturbato dall’eccessiva realtà descritta nelle sequenze filmate.

I film di Sorrentino non sono per tutti. Non per chi preferisce racchiudersi in un guscio di protezione che puzza di ipocrisia e di troppi volti che si voltano dall’altra parte.

Parlare di una città, specialmente se è la propria, implica una lotta intestinale in una simbiosi tra un amore sviscerale e un odio di stizza che ce la fa immaginare diversamente da quello che la realtà ci mostra.

Ecco Napoli, o Parthenope se preferite, bellissima e suadente. Desiderio di un sogno erotico notturno che, spesso, diventa incubo sudato di un piacere troncato sul nascere. Metafora di una storia millenaria che diventa storia di vita. Un fascino attrattivo che spezza qualsiasi forza di resistenza. Occhi che ti osservano come a volerti catturare nel silenzio, una didascalia che colpisce l’attenzione durante le immagini conturbanti di una città che, dal suo mare e dal Vesuvio sullo sfondo, si fa donna.

Si offre al mondo, ai suoi cittadini, nelle loro contraddizioni e nelle sterili arroganze. Stuprata da un potere corrotto, da chi gestisce la vita quotidiana, senza scrupoli, lasciandoti il sapore di fango da masticare lentamente, in attesa che un’ampolla consegni il miracolo di un plasma liquefatto.

I film di Sorrentino sono da assorbire, da leggere tra i dettagli, perché qualsiasi frammento o particolare, apparentemente innocuo, invade l’osservazione distratta dello spettatore come un messaggio subliminale che sfugge all’occhio ma innesca la mente per considerazioni e prese di coscienza con le quali, sentirsi complici del fallimento di un’intera città.

Silvio Orlando, il docente Marotta di Antropologia, dentro i panni di un personaggio enigmatico, ironico e pratico davanti alle antinomie di un quotidiano dove la realtà supera spesso qualsiasi fantasia. Celeste Dalla Porta, la Parthenope protagonista del film. Verrebbe da dire "troppo bella per fare l’attrice", costretta a forzare l’idea di femme fatale con la quale sognare di soggiacere dentro un’alcova, carrozza cimelio di un’altra rivoluzione persa nella disillusione.

Peppe Lanzetta, nelle vesti del vescovo titolare del rito del miracolo di San Gennaro, più diavolo che santo, più attratto dal corpo palpabile di Parthenope, che l’indicibile di un coinvolgimento mistico che sa di idolatria.

Luisa Ranieri, irriconoscibile sosia di una grottesca imitazione di Sofia Loren, tradita da un sogno in celluloide e la consapevolezza di non poter dire mai la verità, troppo scottante per chi pretende solo il sogno al quale aggrapparsi.

Spettacolare l’interpretazione di Isabella Ferrari, nascosta dietro un velo nero a nascondere un obbrobrio creato da un chirurgo plastico, ci regala una sequenza di altissimo livello recitativo.

Due scene su tutte che Sorrentino ci confeziona come un peso culturale da riportarci a casa sul quale concentrare i nostri pensieri, cercando le risposte alle domande sull’esistenza che non sappiamo più porci.

La scena di sesso spinto tra due adolescenti, figli di due famiglie camorriste. Un’osmosi di violenza e sublimità, in un gesto che inneggia alla nascita di una nuova vita, dentro un patto di sangue e di morte.

L’altra, la metafora del successo sportivo di una città da contrapporre ai quartieri, dove donne sfatte e attempate continuano a praticare il mestiere più antico del mondo, in mezzo a bambini usciti da un fermo immagine di De Sica.

E a proposito di grandi registi, se qualcuno più di una volta ha visto in Sorrentino un’indole felliniana nella sue creazioni che devono sorprendere, la banalità rivendicata da Parthenope in una scena finale del film, ci fa affermare che ispirarsi ai grandi del passato, non è mai stato un reato. Specialmente se lo fai così bene come a Paolo Sorrentino.


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