Dalla Cina con furore

In Italia tutto è permesso, niente è importante
In Cina niente è permesso, tutto è importante
(citazione dal film La città proibita)
La città proibita sembra quasi un revival del periodo d’oro del Kung Fu: nei primi anni Settanta il genere spopolò in Italia, come se queste pellicole facessero da apripista alla diplomazia del ping pong generata da quella brillante, per alcuni funesta, mente del più che longevo Henry Kissinger, nei primissimi anni di piombo italiani.
Invece Gabriele Mainetti ha fatto centro un’altra volta. Il suo film noir, pieno di umorismo, ambientato in una Roma quasi fantascientifica ma estremamente attuale, ti graffia e ti rapisce nella sua trama tortuosa.
Si parte da un dato reale: la politica cinese del figlio unico che ha causato danni apparentemente irreversibili nella piramide di quella popolazione, nell’assetto demografico della Cina odierna che risulta essere l’unico paese al mondo con più maschi che femmine.
La storia si dipana in una Roma dei giorni nostri con allusioni cinematografiche che vanno da Vacanze romane (William Wyler, 1953) ai Sette Samurai (Akira Kurosawa del 1954) a cui si ispirò, dieci anni più tardi, anche Sergio Leone per il suo Per un pugno di dollari.
È una trama inverosimile se non fosse per le battute dei magnifici attori che ci spiegano gli avvenimenti e per la confusione migratoria che regna incontrastata e viene mostrata con un affetto, a volte cinico, soprattutto quando vuole mostrarci le condizioni delle famiglie allargate a cui spesso ci rivolgiamo con disprezzo occidentale, quando solo noi siamo i responsabili di tale affollamento domestico.
- locandina de La città proibita
Ma non pensiate sia un film noioso. Anzi esattamente il contrario: lo spettatore rimane incollato alla poltrona per il susseguirsi di colpi di scena improvvisi e inaspettati. Il tutto condito dall’inverosimile violenza del Kung Fu che comunque riesce a colpire anche le nuove generazioni, forse proprio per quell’esigenza di super eroi di cui tutti abbiamo bisogno oggi. È una confusione di violenza, di macabri ritrovamenti e di tipi di cucina messi a confronto, senza pregiudizi, senza fusioni ma messi in risalto dalla potenza degli interpreti. Anche qui lo chef italico sembra prevalere su una cucina sconosciuta, per quanto millenaria, e che non si risolve certo in una visita frettolosa in un ristorante orientale. Ma state pur certi che è solo un’impressione, suoni maleducati compresi.
Forse a causa di un mio vezzo senile, ma oserei dire che il capolavoro di Gabriele Manetti è tale perché indaga sulla comprensione e il confronto fra le generazioni senza lasciare spazio a falsi preconcetti o scadimenti adulatori e nostalgici verso le generazioni più antiche, come la mia. Le nuove generazioni di adulti cercano di trovare soluzioni nostrane alle sfide a cui vanno incontro, soluzioni dettate dall’esperienza dei personaggi più attempati, con l’unica speranza di poter continuare a vivere in un guscio rassicurante fatto di false prospettive. Quando però la realtà li forza, loro malgrado e contro la loro stessa volontà, trovano soluzioni alternative e cambiano prospettiva. Come è giusto che sia, la mia generazione esce con le ossa non rotte, distrutte. È un gelido giudizio per quelli che non si vogliono arrendere all’età che avanza, inventando falsi sovranismi e/o anacronistici impeti ideologici, privi di costrutto, per opporsi al fatto che la società sia cambiata.
Alcuni famosi registi continuano a sfornare elegantissime pellicole, una gioia per gli occhi che le osservano, prive però di prospettive attuali, preferendo una nostalgia strisciante o, ancor peggio un ritorno all’infanzia, con il plauso esagerato di quella generazione a cui fanno l’occhiolino.
Per concludere, gli interpreti offrono degli esempi magistrali di recitazione e si raggiunge l’apice con Marco Giallini. Lasciatemi crogiolare: è quasi mio coetaneo e questa volta, con forza e autorevolezza, riesce ad uscire da quello stereotipo a cui si era forse rassegnato. Solo la voce rimane la stessa a cui rimango affezionato. Sabrina Ferilli e Luca Zingaretti mostrano la loro maestria ma sono davvero sorpreso per i giovani attori, principali interpreti: Enrico Borello e Yaxi Liu, a me sconosciuti e di cui non esiste nemmeno una pagina di Wikipedia. Spero in futuro se ne possa parlare ancora.
L’Happy End non è scontata e mi oppongo al pensiero di chi invece pensa che lo sia. Penso sia un cambio di prospettiva a cui tutti noi dovremmo tendere, se non altro provarci. Buona visione.
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