Buck o la scoperta dell’inconscio
Il richiamo della foresta / di Jack London; a cura di Davide Sapienza; traduzione di Davide Sapienza. - Milano: Feltrinelli Editore, 2015 – 192 p. - (Universale Economica I Classici). - ISBN 978-88-07-90181-2.
Buck, il protagonista del Richiamo della foresta di Jack London, è un cane “antropomorfizzato” che, all’inizio della narrazione, vive confortevolmente nella Santa Clara Valley, a sud di San Francisco, godendo degli agi borghesi della dimora del giudice Miller e del clima temperato della California. È un cane civilizzato che va a caccia e a passeggio con i figli del giudice, che gioca con i suoi nipoti e che adora farsi fare le coccole dai vari padroni e padroncini. È un bastardo, un incrocio tra un sanbernardo e un pastore scozzese, ma non ha assolutamente la verve e la ferocia di Batard (nomen omen), il cane protagonista eponimo di uno dei racconti più famosi di London. Rebus sic stantibus, a differenza del suo simile, non prova né proverebbe mai rancore nei confronti dei suoi padroni – di cui è follemente innamorato – né attenterebbe mai alla loro vite. E un lacchè (un menial o un minion, come diremmo oggi, influenzati dal linguaggio dei cartoni animati), libero dai bisogni, che si fa i propri comodi e non ha niente di cui lamentarsi.
È servile quel tanto che basta per garantirsi il corrispettivo del contratto sinallagmatico che ha tacitamente stipulato con gli umani. Vive in santa pace una vita spensierata, da vero gaudente. Vive la sua Età dell’innocenza e, come il protagonista dell’omonima opera di Edith Wharton (tout se tient), decide di non scegliere. E forse, come quello, da buon moderato si crogiola nei clichés, nelle aporie e nei chiasmi («Dopotutto nelle vecchie usanze c’era del buono», «C’era del buono anche nel nuovo ordine»). E, inoltre, come Newland Archer è probabilmente destinato ad accoppiarsi con una barboncina di buone maniere anche se magari, in preda alle tentazioni, sbava per le queen bitches che scorrazzano liberamente nella valle. In fin dei conti, però, Buck – costretto dalle circostanze a vivere una vita da “fighetto” – è un cane alienato, è “altro da sé”, ha dimenticato le proprie origini e i propri istinti animali. È un follower che perseverando nella stessa condotta di vita non diventerebbe mai un leader.
A rompere la monotonia della sua esistenza, a ricordagli qual è la sua vera natura – insomma, a salvargli la vita – è Manuel, l’infedele giardiniere del giudice Miller (dopotutto nessuna storia esisterebbe senza l’intervento provvidenziale di un villain!) che lo rapisce per venderlo a un losco trafficante. Siamo ai tempi della corsa all’oro nel Klondike a cui, è bene ricordarlo, ha partecipato anche Zio Paperone (la desolata landa canadese è l’aurea scaturigine delle sue fortune). I cani da slitta scarseggiano e si fa ricorso a tutte le specie canine più o meno idonee alla bisogna. Anche, come in questo caso, ad un highlander svizzero transfrontaliero. Non occorre per forza di cose essere degli husky dallo sguardo di ghiaccio per accollarsi l’ingrato compito di trainare degli umani attraverso l’inumana wilderness dello Yukon, tra agguati di feroci pellirosse e implacabili tormente di neve.
In balìa di un addestratore di cani, «l’uomo dal maglione rosso», conosce ben presto la dura «legge della zanna e del bastone». Diventa un cane da slitta e viene spietatamente “bullizzato” da un suo simile messo a capo della muta. Capisce che se vuole sopravvivere deve atteggiarsi anche lui da “duro”, un po’ come il Michael Jackson del videoclip di Bad. Riemergono così, un po’ alla volta, le sue antiche pulsioni: «E imparava non solo dall’esperienza, ma anche da quegli istinti a lungo assopiti che rinacquero a nuova vita. Le generazioni addomesticate si dispersero. Con la memoria tornava per strane vie alla giovinezza della razza, al tempo in cui i cani selvatici battevano in branco il territorio attraverso la foresta primordiale per abbattere e uccidere la preda. Non gli fu difficile imparare a combattere lacerando e dilaniando con lo scatto rapido da lupo».
James Baldwin ci ricorda che la fine dell’innocenza «vuol dire che finalmente sei entrato in scena». E quando Buck finalmente entra in scena lo fa alla grande: uccide Spitz, il bulletto leader della muta, e prende il suo posto dopo aver patteggiato a suo modo con il padrone. Questi esita ad affidargli l’incarico di caposlitta ma Buck – che è un cane di pochi guaiti – con fare mafioso (traccia un màndala intorno al veicolo e lancia sguardi densi di sfida) gli fa capire che non ha scelta. Dopo la resa dei conti con Spitz, ovviamente dilaniato a morsi prima dal rivale e poi dal resto della muta, il padrone si compiace delle gesta di quello che una volta era il “nuovo arrivato”. Prende atto che non ha più a che fare con uno sprovveduto newcomer (pivellino) ed esclama «quel Buck è demonio due volte», «Mai visto un cane come quel Buck!». Ora il nostro eroe non è più un follower: è il leader. Nello svolgere alacremente la sua corvée – sembra quasi un ossimòro – esibisce tutte le qualità che pretendono i genitori delle Piccole donne del romanzo della Alcott (ancora una volta: tout se tient!): la laboriosità, lo spirito di indipendenza, la tenace determinazione… detto in altri termini: tutte le virtù del buon americano.
Il protagonista del Richiamo della foresta è ormai un nomade, uno sradicato. Non ha più nostalgia della Terra del Sud, della Santa Clara Valley e della confortevole casa del giudice Miller. L’inconscio ha prevalso, non soffre più di heimweh ma di fernweh (ha “nostalgia” dell’altrove, non quella di casa): «Di gran lunga più potenti c’erano le memorie ereditarie che facevano assumere un’apparente familiarità a ciò che non aveva mai visto; gli istinti (che altro non erano se non le memorie dei suoi antenati divenute abitudini) che si erano affievoliti di recente e anche oltre si risvegliarono come tornati alla vita. A volte restando accovacciato ad ammiccare con aria sognante alle fiamme, gli sembrava di guardare quelle di un altro fuoco e che accovacciato accanto a questo altro fuoco ci fosse un altro uomo, uno differente dal cuoco mezzosangue di fronte a lui. Questo altro uomo aveva le gambe più corte e le braccia più lunghe […]. […] i capelli lunghi e arruffati, e aveva la fronte sfuggente. Emetteva strani suoni […]. Era pressoché nudo […], ma il corpo era molto peloso. […] Non stava eretto […]. Il suo corpo possedeva un’elasticità particolare, una flessibilità quasi felina».
È chiaro che a London non è estraneo Freud. Il richiamo della foresta è stato pubblicato nel 1903. L’interpretazione dei sogni, l’opera in cui il padre della psicoanalisi introduce per la prima volta il concetto di inconscio, nel 1899. Se gli uomini si evolvono passando dal processo primario, dominato dall’inconscio (es), al processo secondario, diretto dal sistema conscio (io), a Buck accade esattamente il contrario e, nel suo viaggio dalla California allo Yukon (un percorso geografico ed esistenziale diametralmente opposto a quello di Zanna Bianca, altro eroe eponimo di London), dalla “civilizzazione” regredisce a uno stato primordiale in cui gli istinti e i desideri “bestiali” prendono il sopravvento.
Buck passa da un padrone all’altro. Dopo essere stato al servizio di un terzetto di incompetenti, finisce tra le braccia di John Thornton, l’ultimo umano per cui presta servizio, da lui amato e adorato come nessun altro al mondo («Per la prima volta poteva avere un amore sincero e appassionato. […] lui era il padrone ideale»). Il nuovo mentore è destinato, però, a una fine ingloriosa: durante l’assenza del cane dall’accampamento, muore trafitto dalle frecce dei pellirosse.
Buck, finalmente libero dai sensi di colpa e da qualsiasi legame con la “civiltà” degli uomini, può così scorrazzare allo stato brado nella foresta – in compagnia dei propri simili, i lupi, che tiranneggia e sottomette – aggredendo, dilaniando, sbranando e bevendo il sangue degli uomini (i pellirosse Yeehat che hanno ucciso John), delle altre bestie sue pari e delle povere creature indifese che, nella catena alimentare, stanno un gradino al di sotto del suo. La metamorfosi di Buck si è, una volta per tutte, compiuta: ora è una bestia feroce e spietata e paradossalmente somiglia sempre più a uno dei tanti governanti (umani) che imperversano sul pianeta terra causando guerre e conflitti, seminando morte e distruzione. L’es ha definitivamente trionfato sull’io.
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