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Banu, un film di Tahmina Rafaella

Presentato alla 79° edizione della Mostra del Cinema di Venezia, con Tahmina Rafaella, Melek Abbaszadeh, Zaur Shafiyev (Genere Drammatico - Azerbaidzhan, Italia, Francia, Iran, 2022, durata 90 minuti)

di Piero Buscemi - giovedì 1 settembre 2022 - 2844 letture

Il film inizia con un primo piano sul volto preoccupato della protagonista, Banu, che è anche il titolo. Una scelta voluta e forzata della regista/attrice che sin dalle prime scene lancia il suo forte e deciso messaggio alla platea che manifesta una donna che si fa storia, che da protagonista diventa la figura di interesse per tutta la durata del film.

Quel volto, dolce e duro al contempo, di sofferenza e di senso di giustizia, contro tutti e tutto, deciso a rivendicare un diritto che non è solo una rivendicazione sociale del mondo femminile, è un invito a una intera comunità a non subire, a non accettare passivamente, a non scegliere la strada meno tortuosa. La strada di un paese da decenni in guerra, un’altra rivendicazione di nazionalismo, due popoli in lotta, da un lato l’Armenia, dall’altro l’Azerbaijan. In comune, un’effimera indipendenza frutto dello sfaldamento della ex URSS.

Banu è una giovane donna che prova a denunciare il rapimento del figlio da parte del padre Javid, con il quale deve affrontare un processo di divorzio qualche giorno dopo. Un giovane avvocato la sostiene nella sua rivendicazione di giustizia, battaglia sinonimo di un uso improprio di un termine che deve obbligatoriamente accostarsi a una guerra, sempre giusta per chi la sostiene, sempre crudele per chi la subisce.

La donna non usa la violenza, neanche quella verbale della quale avrebbe diritto di esternare nella sua rabbia contenuta, nelle sue lacrime a stento trattenute. La guerra è lì presente, tra le strade che sembrano troppo occidentali, tra le tante troppo Mercedes a circolare e che ostentano un benessere artefatto e un inno alla libertà e alla democrazia che non convince neanche quando la regista ci mostra la stanzetta del figlio con i suoi muri tappezzati da superoi Marvel.

La storia non è molto diversa da quella che potremmo leggere o vivere in un qualsiasi paese, tra cui l’Italia. Una storia di abuso e di violenza domestica. La donna vittima e succube di una ragion di stato che impone il perdono nei confronti del carnefice, il ricatto morale di chi non deve creare problemi al censore di turno che evidenzia come la vita degli eroi al fronte, pronti a sacrificare la propria vita per l’amore della patria, l’Azerbaijan appunto, pronti a diventare martiri lasciando nelle mani delle madri il dolore di una foto ricordo dei propri figli, non possono essere distratti o bistrattati da sterili problemi di coppia.

L’isolamento e la solitudine di una "lotta" che sembra già contenere in sé lo scontato epilogo, traspare negli occhi fieri di questa giovane donna, che chiude dentro la propria anima lo strappo di un dolore che va oltre a quello fisico, in anni di silenzio e di notti di un amore rubato in nome di un machismo che diventa eroismo patriottico.

Il finale è degno del miglior messaggio di riflessione che la regista/attrice Tahmina Rafaella lascia allo spettatore senza offrire risposte certe e ruoli ben definiti, dove riconoscere i vinti e gli sconfitti sembra quasi un eufemismo. Come del resto accade, davanti a ogni nuova guerra.

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Una scena del film


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