Un giro tra le macerie
‘Noi siamo’ egli disse ‘pensieri nichilisti, pensieri di suicidio, che affiorano nella mente di Dio’ (Max Brod, da una conversazione con Kafka)
Molto suggestivo, giovedì 2 gennaio 2025 l’articolo di Maurizio Maggiani, sul quotidiano La Stampa. Si intitola "Viviamo l’era delle macerie, ma non durerà per sempre". Il cappelletto iniziale, che di solito pongono le redazioni un po’ per attirare lettori e un po’ provando a estrapolare dal contenuto, fa scintillare questa considerazione:
"La nostra arma è il disegno di un mondo nuovo, per essere una Repubblica di umani liberi e giusti. Non so che farmene di un osso di speranza, preferisco accettare il mio posto nella storia"
che sembrerebbe porre il suo autore tra gli accettatori dello status quo - di cui del resto il quotidiano che lo pubblica è tra gli irrinunciabili guardiani e propagantori (La Stampa lo fa a volte con intelligenza, altri con la stupidità sgrammaticata dei servi del potere). Questo l’inizio del pezzo di Maggiani che non riportiamo per intero:
"Lo so che non è bello proprio oggi, il più ovvio tra i giorni augurali, lo so che è sommamente disturbante contraddire la buona maniera che ci pretende ben coperti al riparo di un po’ di benedicente smemoratezza finché non si fa Epifania e tutte le feste se le porta via, e so ancor di più che si sono appena aperte le porte del Giubileo della Speranza e la Speranza è una domanda perentoria, eppure voglio permettermi la libertà di un elogio della disperazione.
Perché questo è il suo tempo, e disperante è la voce che si alza dalle macerie disperse ora, qui, e ovunque sappiamo tracciare l’orizzonte visibile al nostro sguardo. Disperante per chi ha conosciuto speranza. Non c’è virtù così concreta come la speranza, finché la speranza è passione felice; l’origine della parola è nel al sanscrito spa, e il suo significato primevo è tendere a una meta, e non c’è nulla di più concreto, di così fattivo come questo impegno, un viaggio che si carica del presente per portarlo con noi là dove sappiamo di voler andare. Non è un andare solitario, non c’è speranza nella solitudine, nessuna felicità, e non c’è meta, ma solo un dissolversi vagolando.
Nella mia casa materna, proprio sotto la finestra della stanza dove sono nato, ci sono nel muro due sbrecciature ben visibili dalla strada, sono i segni di due colpi di granata sparati quando quella casa si trovava nel mezzo della Linea Gotica. Quei segni sono rimasti fin quando mi sono ricordato di guardarli, certamente finché ci ho vissuto. Strana quella sciatteria quando ricordo bene come l’aia fosse sempre ingombra di mattoni e cemento per mettere mano a migliorie, ingrandimenti, spostamenti di stanze intanto che la nostra grande famiglia mutava e cresceva.
Ecco, io sono figlio di un reduce e di una superstite di quella che consideravano la più grande e disumana tragedia, sono stato messo al mondo là dove se ne portavano i segni e credo che quei segni non siano stati riparati perché era necessario non dimenticarli intanto che io stesso sarei stato il segno nuovo. Perché che altro ha spinto i miei a mettermi al mondo, loro che a quel tempo non avevano niente se non la passione per un nuovo cammino [...]"
Maggiani è uno bravo, fa sempre bene leggerlo. Di questi tempi abbiamo tutti bisogno di medicine per l’anima, di un tonico o anche solo di una tisana. Perché la faccenda delle macerie è una faccenda non solo suggestiva ma anche vera. La nostra era delle macerie. Noi abbiamo costruito tutto un mondo in cui prima era specializzato nel rubare risorse da un posto (lasciando dietro di sé macerie) per portarle da noi con cui effettuare quella accumulazione primaria di capitale che poi ci serviva per andare in posti maggiormente strutturati (un posto a caso: l’India per gli inglesi) per ridurre anche quei posti in macerie. Perché "nel torbido si pesca meglio" diceva il giovane Tony Curtis in "Operazione sottoveste" (Operation Petticoat, 1959, regia di Blake Edwards). È stato il ciclo delle macerie del sistema occidentale chiamato prima mercantilismo (tratta degli esseri umani e delle droghe) e poi industrializzazione.
Oggi viviamo le macerie avvicinarsi sempre di più. Nel declinare progressivo, da quarant’anni a questa parte sotto le ondate del neoliberismo, vediamo sempre più attorno a noi macerie. Prima di crollare e diventare maceria, un edificio mostra l’invecchiamento precoce, le crepe, i segni dello sgretolamento. Siamo nella parte finale di questo sgretolamento e lo sappiamo.
Del resto la parola stessa maceria ha a che fare proprio con il muro. Facciamo i còlti oppure semplicemente quelli che sono andati a cercare cose scritte da altri: maceria, derivato del verbo latino macerare, intendendo il materiale di scarto con cui il muro veniva eretto, che poteva anche essere terra infradiciata [1]. Quando nel 1989 cadde il Muro di Berlino accadde che quel muro (nella sua parte visibile, sotto le telecamere e la folla di Berlino) fu ridotto in macerie e in brandelli da rivendere come souvenir (veri o falsi che fossero).
Siamo affascinati (oltre che terrorizzati e impotenti) da questo processo. La suggestione delle macerie. C’è un libro di Marc Augé suggestivo: Rovine e macerie : il senso del tempo (Bollati Boringhieri, 2004 [2]) che sarebbe interessante rileggere a vent’anni di distanza: "La vista delle rovine ci fa intuire l’esistenza di un tempo che non e quello di cui parlano i manuali di storia o che i restauri cercano di resuscitare. E un tempo puro, non databile, assente dal nostro mondo d’immagini, di simulacri e di ricostruzioni; dal nostro mondo violento che produce solo macerie: macerie che, per l’appunto, non hanno più il tempo di diventare rovine. Un tempo perduto che capita all’arte di ritrovare".
Matteo Meschiari, nel suo Una geografia delle macerie, esplora come autori e artisti abbiano rappresentato questo tema attraverso le loro opere, descrivendo la “territà” come un residuo di resistenza che persiste anche nelle rovine. La “territà” è descritta come un suolo ancora vivibile e potenzialmente salvifico, anche se percepibile solo come un ammasso di macerie [3].
Non so se la stessa cosa possano pensarla chi vive oggi tra le macerie della guerra, a Jenin in Cisgiordania, o a Gaza, o sul fronte ucraino, o in Sudan e negli altri mille "punti caldi" che l’imperialismo angloamericano ha acceso per il mondo. Cercando sul web mi imbatto nelle “donne delle macerie” (Trümmerfrau) della Germania post-seconda guerra mondiale, di cui gli storici parlano per il ruolo giocato nella rimozione delle macerie e nella ricostruzione del Paese [4]. Mentre le marionette del potere ridono davanti alle telecamere, vediamo le macerie come un blob inarrestabile, circondarci annegarci. Il nostro ultimo consumismo è rimestare tra queste macerie proprio come gli zombi di Romero che tornavano al supermercato ormai deserto per ripetere un rito di cui non è più comprensibile lo scopo. Sono, le nostre macerie, la prova visibile del fallimento delle nostre generazioni [5].
Macerie / di Erich Fried
Il poeta Osip Mandel’štam fu visto l’ultima volta
in un campo di smistamento prigionieri
presso Vladivostok nel dicembre del trentotto
mentre cercava resti commestibili in un
cumulo di immondizie. Morì prima ancora che finisse l’anno
I suoi assassini a quei tempi amavano parlare
del “cumulo di macerie della storia
sopra il quale
sarà gettato il nemico”
E dunque questo era il nemico: il poeta in fin di vita
e questo il cumulo di macerie (come già disse Lenin:
“La verità è concreta”) Se l’umanità avrà fortuna
gli archeologi delle macerie della storia porteranno alla luce
ancora qualcosa della nostalgia di una cultura universale
Se l’umanità avrà ancora fortuna saranno uomini
gli archeologi sulle macerie della storia.
Fonte: Nuovi poeti tedeschi (Einaudi, 1994), trad. it. A. Chiarloni
La fine e l’inizio / di Wisława Szymborska
Dopo ogni guerra
c’è chi deve ripulire.
In fondo un po’ d’ordine
da solo non si fa.
C’è chi deve spingere le macerie
ai bordi delle strade
per far passare
i carri pieni di cadaveri.
C’è chi deve sprofondare
nella melma e nella cenere,
tra le molle dei divani letto,
le schegge di vetro
e gli stracci insanguinati.
C’è chi deve trascinare una trave
per puntellare il muro,
c’è chi deve mettere i vetri alla finestra
e montare la porta sui cardini.
Non è fotogenico
e ci vogliono anni.
Tutte le telecamere sono già partite
per un’altra guerra.
Bisogna ricostruire i ponti
e anche le stazioni.
Le maniche saranno a brandelli
a forza di rimboccarle.
C’è chi con la scopa in mano
ricorda ancora com’era.
C’è chi ascolta
annuendo con la testa non mozzata.
Ma presto
gli gireranno intorno altri
che ne saranno annoiati.
C’è chi talvolta
dissotterrerà da sotto un cespuglio
argomenti corrosi dalla ruggine
e li trasporterà sul mucchio dei rifiuti.
Chi sapeva
di che si trattava,
deve far posto a quelli
che ne sanno poco.
E meno di poco.
E infine assolutamente nulla.
Sull’erba che ha ricoperto
le cause e gli effetti,
c’è chi deve starsene disteso
con la spiga tra i denti,
perso a fissare le nuvole.
[1] Cfr Una parola al giorno.
[2] Vedi sulla pagina web di Bollati Boringhieri.
[3] Su Meschiari inviatiamo a leggere l’articolo di Giampiero Comolli su DoppioZero.
[4] Cfr Wikipedia. Ma vedi anche su Berlin89.
[5] Fin troppo facile pensare ai nati nel 1960y e seguenti. Su quelle degli anni 1980y vedi i due volumi di Macerie prime, di Zerocalcare.
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