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Quando muore un gatto

Quando muore un gatto è d’obbligo la riservatezza. Il dolore è privato, resta dentro. Tale deve restare

di Sergej - mercoledì 8 gennaio 2025 - 279 letture

Quando muore un gatto è d’obbligo la riservatezza. Il dolore è privato, resta dentro. Tale deve restare. Quando è malato o sta per morire un gatto si va a nascondere, per non farsi vedere né ritrovare. Alcuni, i più fortunati, ci riescono. Altri per consuetudine domestica o per mancanza ormai di forze, non riescono a sparire. I loro compagni umani rimangono così accanto a loro, quando va bene, ma incapaci di poter aiutare in alcun modo. Gli umani non parlano la lingua dei gatti. Non sono mai riusciti - sono decisamente inferiori. Ci sta molto un gatto a morire e quando muore alla fine, non è più un gatto. È una cosa, un ammasso di pelliccia e carni. Non è più un gatto. Capita di vedere questi piccoli ammassi lungo le strade di campagna o le autostrade. Gli umani, dentro le loro auto colpevoli scorrono senza più riuscire a distinguere - alcuni sperano che non di un gatto si sia trattato, ma di qualcos’altro che non sanno neppure nominare. Come tutte le nostre morti, gli umani vivi hanno il problema dello smaltimento. D’altra parte, gli umani ragionano così. Anche del “loro” gatto, quello che hanno conosciuto e frequentato per anni. Che veniva a farsi accarezzare o a protestare per l’acqua o per il cibo mancante. Il gatto che gorgogliava come la caldaia di una caffettiera, o quello che attraverso piccoli miagolii cercava di farti capire qualcosa di semplice e lampante ma che la tua lentezza di comprendonio, tipica dei cervelli umani, non riusciva a comunicarti.

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Un gatto, ottobre 2012

Di un gatto pensi di sapere tutto e invece hai sempre saputo solo quel poco che la dignità del gatto ti ha concesso di sapere - ma solo dopo averti studiato a lungo e alla fine accettato nella tua limitatezza d’umano. Lo hai visto crescere, da gattino appena svezzato a gatto giovane e poi dignitoso gatto adulto, e infine la vecchiaia del gatto. Lo hai tirato giù dal tetto su cui era salito e non sapeva più tornare giù a causa dell’altezza: tu nella scala e lui molto preoccupato della tua insana manovra. Finché lui stesso ha imparato a scendere attraverso la scala a pioli, scaracollandosi intrepido. Lui che miagolava alle colombe nel cielo. E lottava in difesa del territorio contro i gatti del vicinato, il grande gatto nero più grosso di lui e di cui aveva il terrore perché ferocissimo ma lo stesso lui ci andava contro sapendo dei morsi e delle ferite che avrebbe riportato. Cocciuto. Perché il terrazzino era la sua casa e lì c’erano anche quegli umani che vivevano con lui e che di tanto in tanto sparivano, indaffarati attorno alle loro umane e goffe occupazioni. Ogni gatto ha la sua individualità, le sue abitudini. Lui si metteva accanto per farsi fare i grattini sul collo e sotto l’orecchio. Poi si addormentava sul letto, acciambellato, ai piedi ma con un occhio vigile ai movimenti umani - quel loro corpo umano goffo e troppo grosso, capace di calpestare inavvertitamente. Come molti gatti, portava in omaggio le piccole prede che riusciva ad acchiappare nel terrazzino - lucertole, uccellini. E per bere amava salire sulla pila della lavanderia, in precario gattesco equilibrio e attendere che gli aprissi il rubinetto dell’acqua e lappare così, in aria godendo del flusso trasparente lasciato scorrere vivo. Tennents aveva il nome di una birra. E ora noi berremo sempre alla sua anima di gatto sperando un giorno anche noi di poter tornare sulla terra e essere tanto degni da avere anche noi un corpo e una vita di gatto.


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