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Stupratori in branco, nessuna attenuante?

Il nodo centrale della questione non è tanto la durata della reclusione quanto la qualità pedagogica della stessa

di Augusto Cavadi - mercoledì 20 novembre 2024 - 417 letture

La notizia di questi giorni della sentenza di condanna a sette anni di reclusione (otto all’unico imputato minorenne) per gli autori dello stupro di gruppo ai danni di una ragazza palermitana ha suscitato un dibattito fra esperti di diritto che può aiutare il pubblico dei ‘profani’ a soppesare tutti gli aspetti giurisprudenziali della vicenda. Ma, al di là degli aspetti tecnici, ogni processo comporta dei risvolti culturali, simbolici, etico-politici che incidono sulla mentalità e sui comportamenti della società.

Da questo angolo di visuale, ad alcuni di noi maschi che da una decina di anni abbiamo fondato il “Gruppo Noi uomini a Palermo contro la violenza sulle donne” preme sottolineare due o tre punti rilevanti. Il primo è che una severa condanna (anche se molto vicina al minimo della pena prevista) lancia un messaggio significativo: la violenza di genere non è più sottovalutabile. Le attenuanti a favore dei colpevoli possono essere talmente numerose da indebolirsi a vicenda (un po’ come avviene con tante forme di criminalità, dallo spaccio delle droghe pesanti all’affiliazione mafiosa): uno viene da una famiglia povera e ignorante, l’altro è stato viziato da una famiglia ricca, l’altro ancora ha respirato in una famiglia medio-borghese un’atmosfera grigia e noiosa che lo ha indotto alla trasgressione…

Subito dopo, però, va esplicitato un secondo punto: la condanna dev’essere severa, ma in funzione rieducativa. Ciò vale in generale, non solo per gli imputati giovani: la logica della vendetta (in queste ore si riporta su tutti i giornali una frase orripilante del vice-ministro alla Giustizia Andrea Delmastro sulla “gioia” di “togliere l’aria” ai detenuti di massima sicurezza) non è solo immorale, ma anche autolesionistica perché ai cittadini onesti conviene – utilitaristicamente – che dal carcere escano persone che abbiano avuto modo di riflettere sulla propria vita, di rivedere i propri errori e di progettare cammini alternativi. La realtà, come sappiamo bene quanti frequentiamo le carceri per incontrare i detenuti disposti a dialogare, è ben diversa!

Dunque il nodo centrale della questione non è tanto la durata della reclusione quanto la qualità pedagogica della stessa: questi giovani, correttamente condannati perché delinquenti, come trascorreranno gli anni di detenzione? Saranno impiegati in lavori socialmente utili (compatibilmente con le esigenze di sicurezza) e avranno (se lo vorranno) l’occasione di confrontarsi con altri uomini che provano a incarnare modelli di maschilità alternativi ai più diffusi attualmente (in tutti gli strati sociali!) oppure, abbrutiti dalla noia di giornate sempre ugualmente vuote, attingeranno esclusivamente dall’insegnamento di compagni di prigione non necessariamente ‘pentiti’ di aver sciupato la vita ? Sette/otto anni sono troppi se trascorsi per incarognirsi, troppo pochi se investiti per imparare che il rispetto per le donne è il primo segno della propria maturità maschile.

Un ultimo aspetto riguarda l’opportunità, in casi del genere, di indagare la personalità e lo stile di vita abituale della “vittima” per valutare eventuali ambiguità di comportamento nell’interagire con i suoi stupratori. Ammesso, per ipotesi, che una ragazza sia non solo poco netta nel rifiutare un rapporto sessuale, ma addirittura consenziente per mancanza di lucidità o per desiderio di lucro o per qualsiasi altra ragione soggettiva: tale suo atteggiamento legittima la sua “utilizzazione finale” da parte del maschio lucido, ricco o in qualsiasi accezione del termine potente? Non sono certamente in grado di pronunziarmi sulla base della normativa attuale, ma se essa prevedesse davvero delle attenuanti per l’abusante (come sostenuto da qualche qualificato docente di diritto penale) dimostrerebbe di essere arretrata rispetto alle punte più evolute della coscienza civile attuale.

Infatti, se è vero che la maggior parte dei maschi ritiene moralmente accettabile ottenere con qualsiasi mezzo – tranne la violenza fisica – i favori sessuali di qualcun’altra, è anche vero che da decenni, anche in Italia, movimenti diffusi in tante città (come “Maschile plurale”) ritengono questa mentalità patriarcale, maschilista, fallocentrica e lavorano (prima di tutto con sé stessi) per una maschilità alternativa contrassegnata da una convinta parificazione di dignità, di diritti, di opportunità fra i generi. Come abbiano ragionato i giudici nel caso in esame lo sapremo a sentenza pubblicata, ma possiamo augurarci che abbiano sollecitato il diritto vigente (ius conditum) in direzione di un diritto meno parziale da determinare secondo il progresso civile (ius condendum).


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