Siamo figli di Gerusalemme, ma anche di Atene...
NON CHIEDERE A GESU’ IL CRISTO CIO’ CHE NON HA MAI PROMESSO DI DARE
Sin dalla Patristica latina e greca dei primi secoli cristiani si è proclamato il principio fides quaerens intellectum: che la fede non debba essere un’opzione cieca, volontaristica, del soggetto, bensì basata sull’onestà intellettuale. Credere, nel senso etimologico di “affidarsi a qualcuno”, è sempre – anche nelle relazioni interpersonali – una scommessa, un rischio, un andare oltre il calcolo razionale e la certezza aritmetica: ma, come notava anche Pascal nel XVII secolo, è la ragione che ci deve dire quando è il caso di andare oltre se stessa.
Tuttavia questo rispetto dell’intelligenza nelle questioni teologiche è rimasto, quando è rimasto, più un’affermazione programmatica che una pratica effettiva. Ogni volta che l’intellectus – davanti a una scoperta scientifica o a un’intuizione filosofica - metteva in discussione il patrimonio dottrinario sino a quel momento costruito, lo si è bollato come fattore di disturbo, di tentazione.
Per un complesso di motivi che non è qui possibile richiamare, oggi anche nella Chiesa cattolica questo apparato censorio non funziona più: il numero di quanti vogliamo credere senza smettere di pensare va crescendo (anche se meno di quanto crescerebbe se non respirassimo, nella società in generale, un clima di forte anti-intellettualismo che in non pochi casi diventa addirittura orgogliosa apologia dell’ignoranza).
Di questo fermo proposito di capire ciò che si può sapere dei fondamenti della fede cristiana – in particolare della figura e dell’opera del Cristo – è frutto questo bel volume di Dario Culot (Gesù, questo sconosciuto. Cosa sapere prima di cedergli. O di rifiutarlo) edito, con generosità pari al coraggio, dall’editore trapanese Crispino Di Girolamo, titolare dell’ormai noto marchio Il pozzo di Giacobbe.
Il libro è scandito in tre parti.
La prima, decostruttiva, spiega perché una lettura ‘scientifica’ dei testi biblici non legittima la concezione dogmatica di Gesù come Persona divina eterna incarnatasi nella storia medio-orientale circa due millenni fa: “Gesù non ha origine in qualcosa di non-umano disceso dal cielo, che chiamiamo Dio-Verbo. Gesù non è un viaggiatore divino che si presenta in terra mascherato da essere umano” (p. 163).
In una seconda parte, intrecciata con la prima, il libro spiega in positivo la valenza esemplare del Cristo raccontato nei vangeli: “non ha perfezioni ultraumane, non ha qualità essenzialmente divine, ma avendo tolto l’in-umano che ogni uomo porta in sé, è diventato tanto umano da essere icona di Dio. Non c’è stata alcuna aggiunta alla natura umana già realizzata, ma è la stessa natura umana continuamente rapportata a Dio” (ivi).
Poiché le obiezioni, anche basate su equivoci e incomprensioni, suscitate da questa lettura sono molteplici, in una terza parte l’autore ne richiama alcune e prova a rispondervi con pacatezza e chiarezza.
Non restano dunque dubbi, riserve, oscurità? Se così fosse, il libro non sarebbe opera di un mortale. Forse la domanda delle domande inevase – almeno per me – la si potrebbe formulare così: se Gesù è un uomo come noi che, amando e lottando sino all’estremo, ha reso visibile e tangibile il Mistero amorevole, in sé impenetrabile, come conciliare questo annunzio con ciò che ci dicono le scienze naturali sul mare di sofferenze che l’evoluzione biologica comporta necessariamente? Homo sapiens, una volta rimasto l’unico abitante del pianeta, avrebbe potuto evitare – e potrebbe evitare oggi - guerre e altri disastri: ma può considerarsi moralmente responsabile anche del processo anteriore che lo ha condotto a sopraffare e sterminare le altre specie di ominidi? Avrebbe avuto la libertà di comportarsi altrimenti o era ancora offuscato dalla predominanza della dimensione istintuale? Oggi può evitare, con la solidarietà, molti mali ai simili e ai viventi in generale: ma può anche evitare terremoti, maremoti, uragani? Può considerarsi responsabile del destino dei bambini che nascono con malformazioni genetiche? E anche se un giorno dovesse saper difendersi dalle calamità naturali e, con l’ingegneria genetica, dagli “scherzi della natura”, avrebbe anche la possibilità di evitare alla gazzella d’essere sbranata dal leone o alla sardina di essere triturata dal pescecane?
Forse, allora, Gesù è maestro di vita ed esemplare di ortoprassi, ma se cerchiamo anche di capire (ammesso che sia possibile a noi umani) qualcosa delle leggi del cosmo dobbiamo rivolgerci ad altri maestri di ricerca e di pensiero. Abbiamo bisogno di molta scienza e di molta filosofia: non al posto della solidarietà pro-attiva, ma in aggiunta ad essa. Il pane della fraternità è essenziale, ma non gli si può chiedere di spegnere la sete della conoscenza.
Siamo figli di Gerusalemme, ma anche di Atene: non si tratta di optare per l’una o l’altra civiltà, bensì di non confonderle nell’illusione che si possa semplificare ciò che esige attenzione specifica.
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