Sicilia, il fastidio di certe difese

La logica rovesciata dei padroni delle clientele politiche. Il perverso rapporto politica-elettorato, che ha avuto il massimo sviluppo nell’era democristiana, ancora oggi caratterizza il costume politico siciliano.
Su “La 7”, in una trasmissione in cui si parlava delle due Leghe, quella del Nord e la MPA, l’attore pugliese Michele Placido, ricordando i poliziotti e i magistrati uccisi dalla mafia e i politici collusi, lancia una provocazione: non si presentino nelle liste per cinque anni uomini politici del Sud; hanno dato e danno quotidianamente uno spettacolo indecente i mafiosità, malaffare e incapacità. Il candidato del centrodestra a presidente della Regione Sicilia, Raffaele Lombardo, reagisce piccato insultando l’attore; lo chiama, tra l’altro, razzista e traditore del Sud. Questo episodio mi ricorda la veemente aggressione verbale, in un ’Maurizio Costanzo Show’ del 1992, di Totò Cuffaro contro Giovanni Falcone, che, a suo dire, avrebbe costruito delle storie per infangare gli uomini politici democristiani siciliani. Sono reazioni e accuse che hanno il sapore velenoso di una logica rovesciata per la quale chi combatte o denuncia le collusioni e i traffici oscuri di certi politici è additato come denigratore della classe dirigente siciliana e della stessa Sicilia. Un precedente di un atteggiamento simile, però pienamente giustificato, si può ritrovare , a cavallo tra Ottocento e Novecento, a proposito delle polemiche che accompagnarono i processi per l’assassinio dell’ex sindaco di Palermo Emanuele Notarbartolo (*) nel quale era implicato come mandante l’on. Raffaele Palizzolo. Fu la prima volta che comparve sui giornali la parola “mafia”. I resoconti giornalistici provocarono nell’opinione pubblica una generale indignazione contro i siciliani, bollati superficialmente come mafiosi. In Sicilia scoppiò un’esplosione di proteste. Fu costituito un Comitato pro-Sicilia, cui aderirono intellettuali del calibro di Pitré e De Roberto, per riscattare l’Isola da tali infamie. Si disse che questa sollevazione, insieme alle pressioni di Cosa Nostra, portò all’annullamento da parte della Corte d’appello di Firenze della condanna a trent’anni di carcere inflitta a Palizzolo dal tribunale. Nella seconda metà del Novecento destò scalpore un articolo di Indro Montanelli che conteneva giudizi trancianti sul carattere dei siciliani. Bisogna dire che ad un secolo di distanza dal caso Notarbartolo è difficile che un giornalista accusi di mafiosità tutti i siciliani. Le minacce di querela vengono rimandate al mittente perché i servizi hanno il supporto di atti e documenti inoppugnabili. Certo, resta il rischio di possibili reazioni della malavita organizzata: qualche cronista ha pagato con la vita il suo rigore nel divulgare le notizie. Ma l’impianto clientelare del rapporto politica-elettorato, che ha avuto il massimo sviluppo nell’era democristiana, ancora oggi caratterizza il costume politico siciliano. Il sottosviluppo, la ricerca spasmodica dell’occupazione, i timori per l’avvenire dei giovani, condizionano pesantemente ogni possibile apertura ad una visione distaccata del bene comune. Dopo sessant’anni di democrazia in Sicilia si fa politica con la promessa del posto, con i favori, con le raccomandazioni, cioè col voto di scambio più o meno mascherato. E’ ovvio che in un sistema simile i politici che emergono nell’abilità di raccogliere voti e nella creazione di veri e propri feudi elettorali hanno tutto l’interesse a difendere le proprie posizioni e non tollerano inchieste giudiziarie approfondite, campagne giornalistiche che buttano all’aria segrete trame, intrallazzi, collusioni. I giudici, le forze di polizia e i giornalisti impegnati a scavare nei retroterra di vittorie e carriere elettorali folgoranti sono i loro naturali nemici. Essi denigrano la Sicilia, ledono la dignità di un popolo. Siamo al paradosso della morale rovesciata. I politicanti maestri di questo gioco, in un universo di postulanti e di amicizie interessate, diventano i veri difensori di una popolazione senza futuro, tenuta sotto il tallone del bisogno economico e del servilismo. P.S. Ai tempi del caso Notarbartolo la rivolta dei siciliani, avallata da grandi intellettuali, contro i giudizi sommari, ingiusti ed eccessivi della stampa del nord era giustificata da una informazione falsata da troppi pregiudizi, superficialità e ignoranza. La Sicilia era un pianeta semisconosciuto. Oggi la realtà siciliana è sotto gli occhi di tutti. L’informazione è generalmente corretta, la Sicilia può e deve prendere le distanze da certi interessati difensori.
(*) EMANUELE NOTARBARTOLO
Il marchese di San Giovanni nasce in una famiglia artistocratica palermitana, ma presto rimane orfano di entrambi i genitori. Cresciuto in Sicilia, nel 1857 si trasferisce prima a Parigi, poi in Inghilterra, dove conosce Michele Amari e Mariano Stabile, due esuli siciliani che lo influenzeranno molto. Avvicinatosi all’economia e alla storia, diventa sostenitore del liberalismo conservatore (quindi vicino alla Destra Storica). Dal 1862 Emanuele Notarbartolo diventa prima reggente, poi titolare, del Banco di Sicilia.
Arruolatosi con l’esercito dei Savoia, si aggrega anche alla spedizione dei Mille con Giuseppe Garibaldi. Nel 1865 lascia l’esercito e diventa assessore alla polizia urbana a Palermo, con Antonio Starrabba come sindaco. L’insurrezione della città nel 1866 travolge l’intera classe dirigente e la conseguente sconfitta elettorale allontana per un periodo Notarbartolo dalla politica. Dal 1870 al 1873 è responsabile dell’ospedale, poi il 26 ottobre 1873 viene eletto sindaco di Palermo. Rimane in carica fino al 30 settembre 1876. Durante il suo governo, attua varie opere urbanistiche ed è tra i promotori della costruzione del Teatro Massimo di Palermo. Ma, soprattutto, cercò di debellare il fenomeno della corruzione alle dogane.
Dal 1876 si occupa a tempo pieno del Banco di Sicilia, cercando con la sua autorità di riorganizzare il sistema bancario che era stato scosso dopo l’Unità d’Italia. Inoltre il Banco di Sicilia è sull’orlo del fallimento, e l’opera di Notarbartolo evita di far collassare l’economia siciliana. Il suo lavoro al Banco di Sicilia inizia ad inimicargli molta gente. Il consiglio della banca è composto principalmente da politici, molti dei quali legati alla mafia locale. Per di più, durante il governo Depretis, gli vengono affiancati due personaggi a lui ostili, tra cui il parlamentare Raffaele Palizzolo. Il deputato era colluso con la mafia locale da anni e le sue speculazioni avventate avevano creato non pochi screzi con Notarbartolo.
Nel 1882 il marchese fu sequestrato per un breve periodo. L’1 febbraio 1893, nel tragitto in treno tra Termini Imerese e Trabia, venne ucciso con 27 colpi di pugnale da Matteo Filippello e Giuseppe Fontana, legati alla mafia siciliana. Questo caso avrebbe acceso un importante dibattito sulla situazione della mafia in Sicilia e in Italia e, soprattutto, sulla collusione tra mafia e politica, ma inizialmente nessuno osò fare nomi.
Nel 1899 la camera dei deputati autorizzò il processo contro Raffaele Palizzolo come mandante dell’assassinio. Nel 1901 venne giudicato colpevole e condannato, ma nel 1905 fu assolto dalla Corte d’Assise di Firenze per insufficienza di prove, probabilmente sempre grazie ai suoi appoggi importanti ( Wikipedia)
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