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Nell’era del cinghiale bianco

di Sergej - giovedì 6 maggio 2021 - 1645 letture

La buona notizia è che non abbiamo intenzione di essere l’ombra di noi stessi, né di lasciare nel DNA dei nostri successori la codardia incastonata nelle sue catene. Preferiamo la ribellione alla resa; i banchi di scuola alle sbarre; la voce ferma al silenzio complice; il diluvio alla nebbia. Preferiamo essere vivi, preferiamo essere un fiume piuttosto che uno stagno” (Gloria Arias Neto [1])


È come noi “sentiamo il mondo” che siamo in grado di vivere in un determinato modo (“secondo il mondo”) o in un altro (le infinite possibilità altre che includono anche il poter vivere “contro” il mondo e persino “al di fuori” del mondo).

All’indomani delle grandi mattanze della Seconda guerra mondiale, non si pensava in termini di durata nel tempo. La durata della vita era più corta. Già pensare una cosa di vent’anni la si pensava in pratica eterna. Invece poi. Invece poi la durata della vita si è allungata, proprio la generazione del baby boom ha recato dentro di sé i geni della durata: 80 e oltre, generalizzata e non più soltanto per pochi (privilegiati: grandi saggi, pochi fortunati, patriarchi di possenti famiglie). E quando si diceva: “comunismo ed elettrificazione”, si impiantavano le tratte e gli altiforni che cominciavano a produrre, e a trasferire energia da una città all’altra e tutto sembrava potesse durare in eterno. Che una volta fatta la cosa, tutto venisse prodotto come per un flusso di cornucopia: metti la materia grezza da una parte, esce la materia finita dall’altra. Ab aeterno. Invece nulla è eterno nella civiltà industriale basata sulla termodinamica e dunque sul principio entropico. Le fabbriche si deteriorano col tempo. Questo è quello che abbiamo imparato. E producono non solo materiale finito, ma tanto tanto materiale di scarto: l’inquinamento che ammorba l’aria, le falde freatiche, l’ambiente. Con l’industria nucleare abbiamo cominciato a imparare che esiste l’inquinamento, e che la gente muore a causa degli inquinanti prodotti. Con la crisi del 1975 imparammo un’altra cosa. Che non basta produrre, ma occorre innovare la produzione. Che l’industria deve essere rinnovata, e così gli impianti, e così persino le abitudini dei consumatori. Non si possono produrre trattori sempre gli stessi, il modello T dei trattori. Chi riesce a rinnovarsi, demolire le vecchie fabbriche e costruirne di nuove, riempire i supermercati di merci per addestrare nuove generazioni di consumatori, sopravvive alla competizione. Chi salta una fase, perde la competizione e si ritrova indietro.

Insomma, non basta produrre e comprare una macchina. La macchina con il tempo invecchia e deve essere sostituita. E allora occorrono altri soldi per comprare una nuova macchina. E questa cosa avviene più volte le corso di una vita - sempre più lunga. Mentre le nuove industrie producono beni sempre meno durevoli, in modo che possono soddisfare la cultura da cui sono nate, il consumismo. L’industria del consumismo produce beni di breve durata, deperibili - fatti appunto per essere consumati e sostituiti. Come potevamo immaginare che i ponti e le autostrade che abbiamo costruito negli anni Sessanta, dopo mezzo secolo hanno cominciato a mostrare crepe, buche, cedimenti? E, cosa strana davvero, nel frattempo le cose hanno bisogno di essere accudite, controllate e nel caso rabberciate. E bisogna spenderci un sacco di energie e persino di risorse vere. Una roba che in pratica è come se dovessi ricostruire di nuovo il manufatto ogni tot di tempo. E nella società basata sul profitto può persino accadere che ci si dimentica di manutenere e si incassino invece i dividendi. Prosit. È il loro capitalismo, bellezza.

Per chi allora immagina di progettare le città, progettare i territori, immaginare una organizzazione in cui abitanti risorse e tempo siano coordinati e, soprattutto, ridistribuiti (che è la parola in odio a tutti i sistemi basati invece sulla sperequazione, sul fatto che a qualcuno viene dato di più rispetto a tutti gli altri che rimangono a secco), pensare in termini di sviluppo infrastrutturale e industriale allora significa anche mettere in conto il fattore obsolescenza dei materiali, il fatto che un impianto ha un impatto ambientale (come diciamo dal secolo scorso), che per costruirlo serve tempo e poi c’è una durata di tempo in cui un impianto entra in produzione; ma che poi c’è un fattore smantellamento di cui occorre tenere conto, nel fine ciclo del manufatto: che incide sul tempo e sui costi, e sull’impiego di manodopera, e sull’impatto ambientale.

Se negli anni Cinquanta del Novecento ancora poteva anche non essere una colpa non pensare a tutte queste cose, oggi non è più possibile. Solo che a pensare e decidere sono ancora classi d’età e personale addestrato con una mentalità pre-industriale. Per dirla in maniera comprensiva; perché poi ogni scusa è sempre buona per far finta di non considerare un dato aspetto quando c’è di mezzo l’interesse (politico, il tornaconto economico ecc_). Su ciò che viene immesso in un territorio dovrebbero essere le popolazioni locali intanto a decidere. E queste debbono essere debitamente informate - non circuite o propagandate. E per essere informati occorre una seria opera di scolarizzazione. Scuola e democrazia si tengono. La scuola non serve solo per permettere all’operaio di leggere il libretto delle istruzioni della macchina che deve manovrare (come vorrebbero alcuni). Dato che non viviamo nel mondo perfetto, ma in questo mondo parziale e fragile, le classi dirigenti hanno ancora più responsabilità su quanto viene deciso, perché attraverso loro passa la vita anche di coloro che non sono in grado di (o sono esclusi dal) decidere.

Uno degli effetti secondari dello sviluppo delle società tecnologiche e industriali è l’avvento dell’età del calcolo. La matematica del Seicento ha scavalcato la geometria del Cinquecento (e l’asse della “civiltà” si è spostata dal Mediterraneo all’Atlantico), bussola sestante e metro hanno portato gli europei occidentali a circumnavigare il globo, cannoniere sui porti dell’Asia e poi a mandare veivoli su Marte e nello spazio. Con la matematica abbiamo prodotto armi vettovaglie vestiti per i soldati inviati sui campi di battaglia della Prima e della seconda guerra mondiale; abbiamo calcolato il fabbisogno delle popolazioni e quante razioni occorrevano per un tot tempo. Con la matematica sappiamo quanto tempo occorre per produrre una determinata cosa, quanto quella cosa durerà nel tempo, quanto tempo ci vuole perché i suoi elementi possano essere riassorbiti nel ciclo naturale - e gli effetti relativi. Da un po’ di tempo a questa parte sappiamo anche che il semplice calcolo matematico non basta, che l’ecosistema è qualcosa di ancora più vasto e complesso.

Continuare a ragionare in termini di esaltazione della tecnica o di rifiuto totale (visti gli effetti conclamati) fa parte di un tipo di impostazione tipica dell’era pre-industriale e pre-matematica. Il fatto che ci troviamo invece (da un bel po’) in un ecosistema complesso e interdipendente dovrebbe portarci a cambiare molto nel nostro modo di pensare, di fare, e di “sentire il mondo”.



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