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La poesia neodialettale in Romagna

"Nel nostro secolo, e specialmente in questi ultimi decenni, la poesia - sempre più ansiosamente alla ricerca di un rifugio che la protegga dall’appiattimento e dalla strumentalizzazione del linguaggio di massa - ha riscoperto la dimensione del vernacolo come lingua pura..."

di Matteo Veronesi - giovedì 15 febbraio 2007 - 5578 letture

[In margine a Le radici e il sogno. Poeti dialettali del secondo ’900 in Romagna, a cura di Luciano Benini Sforza e Nevio Spadoni, Mobydick, Faenza 1996]

A distanza di alcuni anni, è ancora utile ed attuale questa vasta ed attenta selezione antologica della poesia dialettale (o meglio “neodialettale”, in quanto moderna e contemporanea nei temi e nello stile) romagnola. Questa recensione non è dunque tardiva, ma aderente, semmai, alla perenne attualità della poesia, la quale sopravvive, ostinata, nelle ombre e nelle pieghe marginali del sistema della comunicazione.

Nel nostro secolo, e specialmente in questi ultimi decenni, la poesia - sempre più ansiosamente alla ricerca di un rifugio che la protegga dall’appiattimento e dalla strumentalizzazione del linguaggio di massa - ha riscoperto la dimensione del vernacolo come lingua pura, "vergine", incontaminata, naturale via d’accesso e punto di partenza per una possibile "discesa alle madri", per un ritorno alle radici, prelogiche e pregrammaticali, dell’essere e del pensiero.

Questa riscoperta del dialetto ha certamente trovato nella Romagna, già alla fine del secolo scorso, uno dei terreni più fertili; e la situazione attuale mostra, accanto agli astri di autori ormai ampiamente noti, studiati e già quasi "storicizzati" come Guerra e Baldini, una geografia letteraria tra le più variegate ed affascinanti.

Secondo la prospettiva storiografica delineata nella sintetica introduzione dai curatori di questa antologia - Luciano Benini Sforza e Nevio Spadoni - le esperienze poetiche dei neodialettali romagnoli possono essere ricondotte ad una comune base di partenza, rappresentata da una "koiné realistico-guerriana". Tale prospettiva iniziale - che sarebbe comunque riduttivo limitare ad una comoda e generica etichetta di "realismo", e in parte connaturata alla stessa scelta linguistica - viene peraltro aggiustata ed "inquinata", nei singoli autori, da elementi di varia natura.

Se guardiamo ai testi, non potremo non riconoscere di trovarci davanti, secondo la definizione dei curatori, ad esiti di "realismo impuro", il cui dominio è costantemente dilatato e sollecitato ad accogliere evasioni e fughe verso le plaghe del sogno e dell’assurdo (come spesso avviene, ad esempio, in Baldini), o di "idioletto macchiato", secondo la definizione di Brevini: davanti, insomma, a quella "complessità", tale da fondere "disperato lirismo e disperato realismo", di cui ebbe a scrivere Pasolini.

I testi antologizzati possono essere fatti rientrare - per ricorrere ad una vecchia categoria crociana che può ancora tornare utile - nell’àmbito della "letteratura dialettale riflessa": questi autori, reagendo alla progressiva e preoccupante "italianizzazione dei dialetti" lamentata, tra gli altri, proprio da Guerra, sottopongono il loro strumento linguistico ad un tenace lavorìo di elaborazione formale, sperimentazione metrica, "scavo" etimologico e lessicografico - il che, tra le altre cose, li pone al riparo da qualsiasi rischio di oleografia, macchiettismo o superficiale bozzettismo.

Ciò, come per miracolo, non impedisce che nei loro componimenti - costruiti spesso con endecasillabi e settenari ineccepibili, ma altrettanto spesso con versi liberi mossi ed inquieti - il dialetto torni a parlare con la sua voce più pura ed autentica, facendoci sentire, in una forma immediata, naturale, "necessaria", "popolare" nel senso più alto del termine, "tot e’ mél dla vita / tot e’ fél dla vita".

Matteo Veronesi


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