Le fertili disillusioni di Giovanni Lindo Ferretti
Scrive Ferretti: "è la parola che rende necessario e prezioso il silenzio. La parola si nutre di studio contemplazione ascolto e deve essere coraggiosa, pregna". Un articolo di Elisabetta Brizio.
“Dove il passato non è remoto il futuro svela tratti d’anteriore” si legge - a proposito dell’accadere del tempo, del suo succedersi in noi - nel bellissimo manifesto relativo al tour dello scorso anno di Giovanni Lindo Ferretti o, se preferiamo, Ferretti Lindo Giovanni, come egli è solito firmarsi nei suoi autografi (forse perché, come diceva Proust, le cose vanno spesso lette a rovescio e decifrate con estrema fatica?).
E a pagina 11 di Reduce figurano le parole, emblematiche al riguardo, di un suo ormai famoso testo, costruito su raffinatissime e iperboliche rime: “le cose cambiano ecco com’è / quello che c’era adesso non c’è”. E potremmo aggiungere, inversamente, quello che c’è adesso non c’era prima, o almeno non riuscivamo ancora a percepirlo distintamente. Siamo in continuo svolgimento, differenze che si svelano nella durata del tempo. Siamo esseri fluttuanti, l’immobilità interiore non inerisce all’uomo. Scriveva Fernando Pessoa: “Vivere è essere un altro. Neppure sentire è possibile se si sente oggi come si è sentito ieri: sentire oggi come si è sentito ieri non è sentire, è ricordare oggi quello che si è sentito ieri, è essere oggi il cadavere vivo di ciò che ieri è stata la vita perduta.” (Il libro dell’Inquietudine di Bernardo Soares, tr. it. Feltrinelli, Milano 1986, p. 72).
Molto più lapidariamente Dino Campana, nei Canti Orfici (memore forse del rimbaudiano “Je est un autre”), parlava del sé trascorso come di “colui che io ero stato” (La Notte, 3) e ne parlava, ovviamente, in terza persona. Cambiamenti, mutazioni, talora stravolgimenti non sono presagi di incoerenza quanto piuttosto di autenticità, segno del raggiungimento di una maggiore consapevolezza di sé, del vivere e del sentire.
Potremmo adattare a questo discorso una memorabile frase di Walter Benjamin: “la reliquia deriva dal cadavere, il ‘ricordo’ dall’esperienza defunta, che si definisce, eufemisticamente, ‘esperienza vissuta’” (Parco Centrale, in Angelus Novus, tr. it. Einaudi, Torino 1962, p. 140; laddove “ricordo” traduce “oggetto-ricordo”).
Ma l’esperienza più vera di Giovanni Lindo Ferretti appare non defunta. Defunto, se mai, è un certo passato legato a ideologie che lo facevano atteggiare ad ateo e comunista, falsificazioni alle quali egli non è più in grado di adeguarsi. “Solo dopo i trenta avvenne che, non contento di me tornai a casa” (Palpitazione tenue).
Alcune profonde riflessioni sul tempo - pur nella loro ricercata forma aforistica -, figurano alle pagine 23-24: sul tempo del dolore (molto meglio di tanta psicologia - che nell’affrontare il trauma abbandonico se la cava con la consueta frase da manuale dell’ “elaborazione del lutto” - si è espresso Ferretti in una riga di questo libro: “Il tempo del dolore è un tempo lento, ristagna e affonda”. Ristagna il tempo, non va avanti, non procede, cessa di scorrere e ne siamo sopraffatti, persi dentro), della gioia, della storia, dell’attualità, del “divenire personale e storico”, del futuro, il quale non è del tutto inavvenuto e già si intravede nel presente, e in parte è già vissuto. “Se vuoi conoscere i tuoi pensieri di ieri osserva il tuo corpo oggi / se vuoi sapere come sarai domani osserva i tuoi pensieri di oggi”, dice Franco Battiato (ma il testo è di Manlio Sgalambro) in Il cammino interminabile.
Reduce è un libro sul ritorno, che si configura qui come ritorno a casa (“in regressione genetica tornavo a casa”, p. 15), e sulla portata delle sue conseguenze, a un tempo liberatorie e rivelatrici. Ritorno come progresso, ripresa, un avanzamento, un tentativo di colmare una incompiutezza, non come rovesciamento o opposizione radicale nei confronti del passato. Ritorno come profilarsi di una differenza nella continuità:
Reduce da cotanto immane sforzo, confuso e stanco, di troppe cose già a noia e d’altre che rifuggono il conto, mi fermo, a rimirar il cammino e d’intorno. (p. 15)
Pertanto il ritorno a casa diventa anche l’occasione per una riflessione o tale riflessione è stata indotta dal ritorno a casa. Sembra tautologico ma non lo è: le due circostanze paiono piuttosto intrecciarsi. L’occasione del ritorno suscita una riattualizzazione del passato capace di rinvenirvi qualcosa di non elusivo, una speranza suprema che sottragga l’individuo all’idea della caducità della sua esistenza finita o perlomeno a quella - altrettanto oppressiva - del suo aggirarsi nei confini di un estremamente limitato orizzonte (vedi nebbia pascoliana, muro montaliano…). Il compimento del viaggio di ritorno rappresenta comunque il vertice di una evoluzione.
“Ritornerò con voi” aveva scritto il padre di Ferretti, partito in guerra - poi “d’improvviso appena morto” (p. 17) - nella foto sbiadita e sciupata che compare nelle prime pagine del libro. Di quelle foto stinte dove gli sguardi lontani, sognanti e senza desideri delle persone che non ci sono più parrebbero ora contenere quasi la previsione di un triste destino. Reduce costituisce uno dei rari casi in cui all’idea del ritorno non si associa quella di un inevitabile fallimento o la scoperta di un vuoto incolmabile. Non perviene ad alcuna nichilistica conclusione (ricordate le parole, dalla risonanza cosmica, del pascoliano Odisseo: “Non essere mai! Non essere mai! Più nulla / ma meno morte, che non essere più!”?), né il ritorno è impiegato, come in tanta poesia crepuscolare, a ennesima oggettivazione di una assenza, ad alternativa all’attuale inaridimento, o come tentativo di costituirlo a rifugio dell’anima in un vagheggiamento indefinito. Quella di Ferretti è una rivisitazione che non ambisce a fissare sé stesso fuori dal tempo, a inabissarsi nell’oblio di un luogo destituito di memoria, o che si riduce a un disilluso constatare che indietro non si può tornare e che l’esistenza consiste in un andare irrevocabile verso il nulla. Ferretti non “va incontro alla morte” (parole sue, in Cavalli e cavalle) come fa consapevolmente ‘Ndria Cambrìa in Horcynus Orca, il cui viaggio di ritorno prende sempre più l’aspetto di un percorso verso la dannazione che lo spinge, dopo un interminabile delirio, a cercare la morte come una sorta di rivolta (perché? Tornare alla madre equivale ad andare verso la morte? O è la verità stessa che muore?). E neppure come il protagonista di Il male oscuro, al quale non resta che rifugiarsi nel paese dei racconti paterni, finire i suoi anni nell’emarginazione, bruciare i propri scritti e le foto che raffigurano suo padre morto, e prepararsi, a sua volta, a morire: “e poi sarà tempo di dire Nunc dimittis servum tuum Domine, forse è già tempo”. Tanto per fare alcuni esempi - ma l’esemplificazione potrebbe essere lunghissima - dove il motivo letterario del ritorno si accompagna alla prefigurazione o alla cognizione di tutta la vacuità dell’esistenza. Al contrario, Ferretti sente la necessità, pur nella disillusione di uno che ha già superato da tempo l’età del disincanto - quella che chiamiamo la domenica della vita - di un approfondimento di sé, di una riconciliazione e di un non ulteriormente differibile porsi la domanda essenziale: quali sono veramente gli aspetti del mondo che vale la pena ascoltare? Per questo si mette in cammino, in questo mondo. E il viaggio - come lo intende Ferretti - si delinea come metafora della vita: per definizione è un attraversamento contemplativo, un lento soffermarsi, indugiare, riflettere sulle presunte ovvietà, “perder tempo per trovare altro” (p. 49), “appartenersi, meditare”, direbbe Guido Gozzano, e non un procedere direttamente, con lo sguardo distratto, verso la destinazione. Anche le persone che incontriamo lungo la nostra esistenza, alla stessa maniera dei paesaggi, suscitano intimità o estraneità, anch’esse sono oggetto di un continuo rinvenimento, visto che “non tutti i viaggi si misurano in chilometri” (p. 59).
Egli scrive: “Arriva il tempo della verifica, arriva come necessità, d’urgenza. (…). Perdersi e ritrovarsi per tornare poi ai soliti passi, più coscienti, a volte più complessi a volte semplici.” (p. 45). Se il motivo del ritorno è suffragato da un’idea di positività, la reiterata parola “gioia” intesa nel suo significato più profondo, come felicità dello spirito, ne costituisce il mot-clé.
Dopo la descrizione di un certo disagio misto di perplessità per lo scarto tra ciò che ci si aspetta e ciò che realmente si trova Ferretti non si sente vacillare per il presentimento dell’irrevocabilità del passato, né si lascia sopraffare dalla primitiva e deludente impressione, ma la attraversa e ci indica cosa ricerca: “l’azione del cuore è il pulsare, l’azione della verità è lo splendere / illuminare. E’ ciò che cerco.” (p. 107). Il suo è un progetto di ritorno che assomiglia a qualcosa di predestinante. L’idea assimilata del sacro, della trascendenza divina - vissuta, più che dogmaticamente, come sentimento di perennità, come percezione della dilatazione del tempo (“contemplando i millenni”, p. 25) -, restituisce un senso alle cose e contemporaneamente costituisce una chiarificazione di quello che appare come invariabile, “il residuale, ciò che permane” (p. 115), la creazione, Dio, il cui giudizio “è altra cosa” (p. 81), non paragonabile alle alterne democrazie della storia. Il motivo iniziale del ritorno a casa si precisa allora soprattutto come ritorno al Cristianesimo cattolico, che ha molto a che fare con le nostre origini. Il viandante-perdente - parola, quest’ultima, che è positivamente connotata: i perdenti, per Ferretti, sembrerebbero possedere una umanità superiore, in quanto “più adatti ai mutamenti” (In viaggio) - cerca una continuità nel tempo, qui definita in termini di circolarità (e una visione circolare del tempo allude alla dimensione dell’eterno), qualcosa che permane sulle cose che cambiano: “grave lento cammino su ieri e domani cammina davanti a me fiorendo il mio giorno. Oggi.” (p. 85). Tenendo sempre presente l’importanza fondamentale del dono della vita, verso la quale Ferretti mostra una adorazione incondizionata (e da lui infinitamente ribadita durante i suoi concerti): “contento di vivere, dono sorprendente in alto in largo in basso e nel profondo” (p. 91).
Ritorno dunque come unica via rimasta per riafferrare il senso della propria esistenza: “Io sono tornato a casa e faccio gli stessi passi che faceva mio padre, mio nonno” (p. 37). E come a suggellare tale situazione, Ferretti pone uno dei suoi versi memorabili: “memorie e passi d’altri che io calpesto” (p. 110), tratti da Inquieto. Tornare “lì dove tutto è cominciato. Lì dove tocca tornare” (p. 102) se deve avvenire la redenzione (sarà un caso che nei termini “reduce” e “redenzione” le prime tre lettere coincidono?), la catarsi dagli errori e dagli inganni a lungo, inevitabilmente, inseguiti. Ritrarsi e ripartire dalle origini per tentare una spiegazione del nostro io attuale, un po’ confuso, un po’ smarrito, comunque sopravvissuto, in una ricerca che può essere solo interiore e solitaria, in un isolamento provvisorio, revocabile. Sulla positività della solitudine Ferretti scrive parole che costituiscono anche un avvertimento rivolto alle giovani generazioni: “è la solitudine che apre a vari regni della creazione (…). La solitudine è una ricchezza capace di arginare, crescendo, sia la noia che la logica del branco. Da lì s’ascende e si precipita e ci s’allarga intorno.” (p. 44). E l’affermazione “sono figlio di un mondo irrimediabilmente vinto” (p. 116) non contiene alcuna intenzione o allusione nichilistica o alcun senso di sconfitta personale. Egli ha infine trovato per sé la via della salvezza: nel divino che permea di sé il quotidiano, nel “sapere arcaico” (p. 39) che ancora permane. Tradisce, al contrario, l’intuizione, pur pessimistica, di tutta la decadenza dell’Occidente - “luogo da cui non giunge suono / luogo perduto ormai” (Occidente) - e della sua corsa dissennata verso il declino, ci indica la dimensione collettiva della tragedia. “E’ stato un tempo il mondo giovane e forte”, diceva Ferretti in Del mondo, parole - piene di una mortale nostalgia - che ribadisce in Reduce.
Ferretti ripercorre la vita passata dal punto di vista di una serenità raggiunta nell’appagamento della propria aspirazione alla gioia; il suo appare uno sguardo retrospettivo da una distanza diversa, quella del reduce che ha assistito all’estinguersi dei contrasti e riconquistato la pace dello spirito nella percezione dell’unità tra terreno e ultraterreno, un dualismo non più vissuto come scissione, quanto come forma di ascetismo, ma da professare nel mondo: “m’inchino solo a Dio, alla vita sempre definibile mai definita” (p. 116). E conclude con un augurio a coloro che sono sulla strada alla ricerca dell’essenziale della vita: “Possano i viandanti trovare serenità ovunque e realizzare i loro scopi / e arrivati sani e salvi alla meta ricongiungersi con gioia ai loro familiari” (p. 118). Leggiamo alcuni versi tratti da un vecchio testo di Ferretti (Esco, appartenente a Linea Gotica), tanto per tenere presente la sua maniera peculiare e sontuosa di trattare il materiale verbale, straniandolo e sbloccandolo dal suo assetto costituito:
qui la luce si ritrae e l’aria è satura dall’eco di lamenti scorteccio le parole aride schegge secche adatte al fuoco
è l’instabilità che ci fa saldi ormai negli sgretolamenti quotidiani
Sulla parola Ferretti scrive: “è la parola che rende necessario e prezioso il silenzio. La parola si nutre di studio contemplazione ascolto e deve essere coraggiosa, pregna.” (p. 108). E, più avanti (p. 116), la parola viene vista come “un rapimento, un’estasi che brucia e fa silenzio intorno.” La parola di Ferretti, come da sempre ci ha abituati, è densa, immensa, sovraccarica di significati, viene costretta a un’ampia dilatazione semantica e il suo legame con il referente è insieme rispettato e infranto: “è un’arma la parola, un’arma il tono, il ritmo. Forma e sostanza preziosa” (p. 116), sostanza rivelatoria. Spesso viene isolata attraverso una sospensione, creando il “silenzio intorno”, che costituisce insieme una zona di incertezza e di attesa di significazione (“trascendente orizzonte”, p. 45; “alterità assoluta e infinita distanza”, p. 48), lasciando al lettore la possibilità di cogliere tutta l’amplificazione, il prolungarsi della parola e il suo travalicare il significato ordinario e convenuto. Da una simile assenza di noncuranza, sul piano stilistico, potrebbe trasparire un rifiuto - non aristocratico, né estetizzante - della mediocrità dei nostri “tempi scadenti” (p. 113). Quella di Ferretti è una voce originaria, accurata, multiforme, che designa, allude, devasta e rigenera, le cui insistenti cadenze sono inconfondibili. Di una tale intensità spesso quasi insostenibile.
Lo stile di Reduce stabilisce un linguaggio altro. E’ personalissimo: rarissime sono le citazioni di Ferretti - fatta eccezione per qualche preghiera e per le parole tratte da precedenti testi suoi - e se compaiono, come nel caso di “maestrale sotto cui biancheggia il mare” (p. 61), costituiscono piuttosto echi che fanno ormai parte della nostra memoria. Quello di Reduce è uno stile “sostanziale”, nel senso che è uno stile di essenza. Metafisico il suo spessore perché l’obiettivo dell’autore è quello di accedere allo strato più profondo della realtà in una contemplazione intemporale e assoluta - vale a dire libera da limiti e da legami - della vita e della storia: “lo sforzo di penetrare la realtà, rivelandola, è poesia” (p. 117). Molto spesso le parole sono accostate per asindeto (“spazza spezza spinge”, p. 63; “misero ingombrante ridicolo feticcio”, p. 64; “azzera memoria religione storia”, p. 69). Ferretti travolge insieme la congiunzione e la punteggiatura adattandole al proprio percorso liberatorio; è uno stilema di Ferretti, scrittore e cantore, e concorre alla creazione di quel suo stile peculiare, che è un eccedere, passare i limiti, con stile. Le ricorrenti elencazioni o accumulazioni hanno una risonanza sia musicale che semantica. Semantica perché l’autore vuole scrivere tutta la stratificazione del tempo che grava sia sulla storia dell’uomo sia sull’idea del sacro in cui tempo ed eternità si dissolvono, l’uno nell’altra, indifferenziati. E l’iterazione quasi ossessiva delle parole “generazione su generazione” (che ricordano un po’ Jodorowsky) non fa che confermare questa impressione del lettore. La sua dimensione sta nell’ossimoro “un oggi eterno” (p. 77).
Una prosa poetica, un lirismo a tratti profetico a tratti concettuale scandiscono le vicende personali e metapersonali o storiche descritte in Reduce. Le parole sono spessissimo imprevedibilmente rimate tra loro, anche a distanza. Frequentissima - il testo ne è disseminato - è la rima martellante interna, incessantemente iterata (“bianca e nera austera in secentesca maniera”, p. 110; “Il futuro è sicuro. Un poco postumo, un poco prematuro”, p. 24; “Il nodo si snoda riannoda”, p. 116): una complessa trama di rime e quasi-rime, di accordi insistiti e fuggitivi, di riprese, attraverso la quale si cerca di dare wesen al casuale, liberandolo dalla latenza. La rima, si sa, non risponde unicamente a una esigenza di musicalità testuale e quello di Ferretti non pare un uso esclusivamente edonistico della rima che si limiti a costruire una modulazione di suoni. Gli accostamenti rimati istituiscono piuttosto nuove presenze, sono invenzioni o intuizioni - talora iperboliche, vertiginose (come quella dal tono fin troppo gozzaniano: “putrescente-seducente”, p.113) - di inattese e infinite connessioni tra le cose, di consonanze sconosciute. Qui le rime appaiono medianiche, analogiche, indagatrici dell’anima. L’avventura della rima esemplifica il viaggio di ritorno di Ferretti; attraverso la rima e il potenziale semantico della parola affiora il mondo sommerso della sua soggettività, si delinea una nuova zona dell’anima e attraverso il proprio stile egli sembrerebbe chiarificarsi e perdere ogni residuo snaturamento di sé.
Si è fin troppo parlato di incoerenza a proposito del ritorno alla fede da parte di Ferretti, circostanza che è parsa incompatibile con i suoi trascorsi di “combattente”, quasi uno snaturamento; e lo stesso sovrapporsi del motivo del ritorno a casa con il ritorno al cristianesimo è sembrato a qualcuno un tratto fastidioso del libro. Forse anziché di incoerenza converrebbe parlare di prospettivismo, di un mancato appiattimento intellettuale e spirituale, della capacità di riconoscere le proprie mutazioni. In una parola, di una attitudine ad appropriarsi del flusso del proprio tempo. Converrebbe inoltre seguire il discorso di Ferretti - intriso di un attento scetticismo e insieme di un grande abbandono sentimentale - sull’odierno uomo totale che “ha dichiarato guerra all’Infinito, l’Indefinibile” (p. 94), promotore di quello che egli chiama ”scientismo tecnologico genetico” (p. 37) - carattere o formula della post modernità, l’età a venire - e sui rischi delle incontrollabili conseguenze di un così impetuosamente dilagante fenomeno nel mondo contemporaneo (qui sottoposto a una specie di blow-up nel capitolo “I pensieri del mar Morto” ma già annunciato in Casi difficili). Ferretti ci avverte della inautenticità - vissuta in maniera spesso allegra e inconsapevole - della nostra vita e ci indica tutta l’artificiosità dei tempi inumani ai quali ci stiamo adeguando con scarsissimo senso critico (“chiamarlo Paradiso e crederci”, ci ricorda in Casi difficili): l’incubo ci viene proposto “in forma di sogno” (p. 95), la parola “buono” si trasforma in sinonimo di totalitario, il laboratorio genetico confonde le generazioni, il non luogo è diventato il nostro luogo privilegiato. L’impegno dell’uomo totale, sorretto da una troppo disinvolta e illogica hýbris, approda a una “negazione della realtà” (p. 97) mentre crede di lavorare per migliorare la vita. Ma a cosa si è ridotta la vita? “Nascere, non è caso ideologico medico etico / e antecedente all’idea di diritto divina conseguenza / d’amore”, egli dice, ancora in Casi difficili. Ferretti non è un moralista, ma un outsider “umano, troppo umano”, preveggente e dalla mente lucidissima, non offuscata da alcuna crisi mistica. A rigore potrebbe essere definito un immoralista che anela al persistere della verità, laddove una moralità qualitativamente eventuale finirebbe per autodistruggersi. Ma prima di tutto, naturaliter, è un grande artista: geniale, singolare, unico. La cui arte può aver origine da quel “Muro dentro eretto dagli Dei”… (Barbaro).
L’autore di Reduce è lo stesso di Intimisto. Più drammaticamente profonda è la versione che compare in Litania, per una maggiore partecipazione emotiva di Ferretti cantore, per la sottolineatura espressiva della seconda voce. Il testo è comunque identico: un autentico capolavoro. In Intimisto l’uso emotivo della parola ha esiti più lineari e la forma dell’espressione pare uniformarsi all’immediatezza dell’ispirazione. Vale veramente la pena riascoltarlo, quando si avverte quella indifferibile necessità di allontanare pensieri meschini adombrati di risentimento e di stare in stretto contatto con parole e voci intensissime. Qui possiamo solo rileggerlo, ricordando queste parole di Friedrich Nietzsche: “sino a quale profondità possano soffrire gli uomini è un fatto che quasi determina la gerarchia” (Al di là del bene e del male, af. 270):
Mi rubi il tempo mi rubi l’energia non ascolti il lamento non ascolti il richiamo
incrini il mio coraggio vanifichi l’attesa le sere che ti aspetto e i pomeriggi che aspettano la sera mi rubi la mattina che mi sveglio da solo e non sta bene distruggi le mie felicità perché sono da poco agli occhi tuoi qualcuna la riempi la gonfi a dismisura e io devo lasciarla che stava bene silenziosa e sola
e gli occhi tuoi mi rubano la luce perché tu possa splendere nei miei allora non rimane niente e te ne vai
consuma spento e lento il mio dolore. Consuma me.
Elisabetta Brizio
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Vorrei complimentarmi con la commentatrice del libro Elisabetta Brizio. Ha saputo approfondire e chiarire gli argomenti del libro con semplicità e riferimenti che mi hanno aiutato a capire, riflettere e crescere. Vito 40