Per una recentente traduzione dei "Carmina Priapea"
Nello scritto postumo Eros e Priapo, Gadda vedeva Priapo come personificazione di quel «cupo e scempio Eros», di quella «bassa prurigine» su cui si fondavano i falsi miti del «gallismo» fascista, cioè dell’esagerata, retorica e maschilistica esaltazione della potenza virile in voga nel Ventennio...
Nello scritto postumo Eros e Priapo, Gadda vedeva Priapo come personificazione di quel «cupo e scempio Eros», di quella «bassa prurigine» su cui si fondavano i falsi miti del «gallismo» fascista, cioè dell’esagerata, retorica e maschilistica esaltazione della potenza virile in voga nel Ventennio.
Non è escluso però che, in quest’epoca di sesso virtuale e di paradisi telematici, contraddistinta da quello che è stato chiamato «il sex appeal dell’inorganico», proprio la simpatica figura dell’antica divinità, prima orientale, poi ellenica ed infine italica, che con il suo enorme fallo incarnava la potenza virile, la fecondità, la libera espressione degli istinti primigeni, possa ancora emanare una sua arcaica suggestione.
A Priapo è dedicata – com’è noto - un’anonima raccolta di poesie latine (i Priapea), la cui stesura risale con buona probabilità al primo secolo dopo Cristo. Si tratta di componimenti in vari metri, in cui il dio, personificato in una di quelle statuette lignee che venivano poste a difesa dei giardini, ostenta e celebra, con un linguaggio colorito e a tratti scurrile, la propria virilità prorompente.
Nell’introduzione ad una nuova edizione (Carmi Priapei, Stampa Alternativa, Milano 2001), il curatore e traduttore, Roberto Asnicar (alias Antonio Castronuovo, poligrafo multiforme ed infaticabile) contrappone all’odierno «piacere artificiale della pornodiva» la sessualità solare e giocosa che si sprigiona dai Priapea.
E il libro appare al lettore di oggi proprio come un alato ludus, un gioco letterario non privo di raffinatezza e di artificio: lo stesso anonimo poeta avverte che si tratta di carmina incompta, di «canti crudi e sfrontati», composti «non nimium laboriose», senza troppa fatica (in modo analogo Marziale, anch’egli a tratti sedotto dalla vena priapea, con letteraria sprezzatura definiva le sue poesie «apinae tricaeque», «stupidaggini e inezie», e reputava vergognoso «difficiles habere nugas», «fare difficili le bagattelle»); Priapo stesso ammonisce che chi gli si vuole avvicinare deve recare con sé «versi giocosi», altrimenti se ne dovrà restare «serioso tra i poeti eruditi».
La squisita metaletterarietà di questa poesia affiora dove il poeta, illuminando l’origine stessa della scrittura epigrammatica, allude alla pratica dell’incidere versi sulla pietra: la sua poesia è «quod otiosus templi parietibus notavi», «ciò che ho segnato, ozioso, sui muri del tuo tempio».
Ciò per cui questa edizione, di indole un poco antiaccademica, maggiormente si segnala è l’assoluta libertà della traduzione, che – come dichiarato nella premessa - vuole opporsi, con la sua vivezza, all’«orribile fissità» della pornografia – a quella che Moravia chiamava la sua «laida perfezione».
Proprio la spregiudicatezza della resa riesce a dare evidenza agli squarci di lirismo che talora trapelano tra i lazzi fragorosi del dio fallico. Così la fanciulla che, prostrata dal piacere, «ad me nocte solet venire et affert / pallorem maciemque larualem» («lassata viris necdum satiata», «spossata dagli uomini ma non ancora sazia», come Messalina nella sesta satira di Giovenale), nella traduzione «di notte viene qui / portando appresso il suo larvale pallore»; le ragazze che sbirciano «obliquis ocellis», con sguardi furtivi, il fallo del dio, nella traduzione «di lato gettano / vogliose occhiate».
E Priapo è capace (come lo sarà, di lì a un paio di secoli, il misterioso poeta del Pervigilium Veneris) di cogliere tutto lo splendore di una natura vivificata dalla fecondazione e dalla fioritura, in versi di cui la traduzione riesce a restituire l’anaforico e giambico incalzare: «Per me le corolle di fiori in primavera, / per me le bionde spighe nel sole dell’estate, / per me i dolci grappoli dell’uva che matura, / per me la glauca oliva formatasi nel freddo».
Non dunque, come voleva Gadda, «una lubido di possesso, di comando, di esibizione» – ma il sorriso dionisiaco, potente e lieve, che ancora ci rivolgono gli antichi. Ad esso noi possiamo rispondere, oggi, non con una smorfia scandalizzata, ma semmai con uno sguardo limpidamente incuriosito, sottilmente indulgente, divertito, forse addirittura venato di lieve malinconia di fronte ad una spontaneità, ad un’autenticità e ad una gioia ormai lontane, se non per sempre perdute – ora che al moralismo greve e cupo di qualche secolo (o di qualche decennio) fa sembra essersi sostituita, per converso, la ricerca ossessiva di sensazioni estreme, di elaborate trasgressioni, di deliranti paradisi artificiali.
Matteo Veronesi
- Ci sono 0 contributi al forum. - Policy sui Forum -