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Antonio Castronuovo e la passione dell’assurdo

"Come Cioran, anche Castronuovo avverte la «pasiunea absurdului», la «passione dell’assurdo», il sorriso sovrano, distaccato, quasi superumano con cui l’uomo reagisce all’angoscia del niente..."

di Matteo Veronesi - giovedì 15 febbraio 2007 - 6302 letture

Non è certo possibile costringere in una definizione univoca tutte le molteplici, e apparentemente anche un po’ dispersive, espressioni (dalla storia locale alla saggistica sul mondo antico, dalla musicologia al romanzo, dalla critica d’arte all’aforisma) attraverso cui si è esplicata, negli ultimi anni, l’individualità creatrice di Antonio Castronuovo, che si compiace di celarsi, a volte, dietro lo pseudo-anagramma di Roberto Asnicar: un’individualità il cui eclettismo intelligente, poliedrico, quasi sorprendente nella sua varietà, nella sua versatilità inesauribile, nella sua ellenistica poikilìa, appare tanto più raro e prezioso in un’epoca come la nostra, che sembra sempre più dominata da quella “barbarie della specializzazione” che stigmatizzava Ortega y Gasset nella Ribellione delle masse.

Ad ogni modo, il suo profilo di pensatore e di creatore emerge con assoluta evidenza dalla tagliente, provocatoria, a tratti quasi crudele nettezza degli aforismi raccolti in Tutto il mondo è palese (Moby Dick, Faenza 2006, premessa di Gino Ruozzi, www.mobydickeditore.it); un genere, quello aforistico, a cui l’autore ha già dedicato diversi libri, da Palingenesi del frammento a Rovi, dal Mito di Atene a Quilismi per un bambino ucciso.

In un profilo dedicato a Cioran, il tragico pensatore nichilista franco-romeno, apparso su «Belfagor» nel 2002, Castronuovo definiva l’aforisma come «un’isola di stile certo», uno spazio testuale e stilistico, un’area del dicibile che danno respiro all’affiorare e all’esplodere del «culmine della disperazione». La memoria va, allora, appunto al Cioran di Pe culmile desperarii, che proprio nell’atto salvifico della scrittura, nello spazio magico e riparato della meditazione e dell’esercizio letterario additava la sola difesa dall’irrompere del nulla, del vuoto, dell’angoscia, e, insieme, lo strumento attraverso cui quell’ansia di nullificazione si faceva, tragicamente, consapevolezza e autocoscienza.

Come Cioran, anche Castronuovo avverte la «pasiunea absurdului», la «passione dell’assurdo», il sorriso sovrano, distaccato, quasi superumano con cui l’uomo reagisce all’angoscia del niente, alla disperazione dell’insensatezza. Come l’«homme absurde» di Camus, così l’uomo di Cioran sarà capace – infedele e sciatta, in questo punto come altrove, la traduzione adelphiana – di «ridere nel momento supremo, davanti al nulla assoluto (in fata neantului absolut)», di ridere «nell’agonia finale, nell’istante dell’ultima tristezza».

Ma il sorriso di Castronuovo non è il riso folle, spasmodico del condannato, dell’ossesso o del suicida; la sua non è la leopardiana, paradossale «barbara allegrezza» dell’infelice o dell’oppresso posti innanzi al pensiero della morte. Il suo sorriso ha, piuttosto, la “leggerezza” teorizzata dal Calvino delle Lezioni americane – per quanto a volte, come in Kundera, «insostenibile», segretamente satura di vissuto, di esperienza, di sentimento, di riflessione talora amara e sofferta. L’ironia di Castronuovo – oscillante fra l’ironia tragica che nasce dalla presa di coscienza della condizione umana e l’ironia romantica, che svaluta l’umano e il contingente tenendo un occhio rivolto alla trascendenza e all’alterità, per quanto inconoscibili, indeterminate, non più che pura possibilità, che li sovrastano e li superano – è vicina alla «profondità della superficie», all’amore per la maschera, per la dissimulazione, per il paradosso, l’antifrasi, il gioco di specchi, che animavano un geniale e tragico aforista come Nietzsche. Insomma la “leggerezza”, l’ironia, la superficie gaia, limpida, scintillante di questa scrittura celano in realtà – nascondendola e facendola trasparire ad un tempo, occultandola e insieme rivelandola – la profondità abissale e cupa di un pensiero intrinsecamente, direi geneticamente tragico, sempre a stretto contatto, fin dal suo nascere e dal suo prender forma, con le verità ultime e prime della vita e della morte, con l’enigma insolubile, e insieme palese, evidente, tangibile – quasi, direbbe Claudel, un “mistero in piena luce” –, della sofferenza. Il Castronuovo di Quilismi per un bambino ucciso (il quilisma, appunto, il canto esile, acuto, teso fra la musica e il silenzio, la sommità e l’abisso, è metafora ideale e pregnante di questa parola incisa, calibrata, dolente nella sua nettezza, come i disegni di Gian Ruggero Manzoni, essenziali, nudi, per così dire archetipici, studiatamente primitivi nella loro violenza e nella loro crudezza decise e gridate, che accompagnavano e scandivano le tappe dolorose di quel libro prezioso) sapeva bene «quanto gioco ci sia nel lutto, quanto engimatico compiacimento»; «bruciati dalla fiamma fredda del nulla», non si può far altro che voltarsi altrove e ridere, per non lasciarsi sopraffare, per poter vivere e perdurare. Si potrebbero quasi ripetere, per Castronuovo, sempre sull’onda della metafora del quilisma, ciò che egli stesso, in Ombre del Novecento, una raccolta di saggi del 2002, scriveva a proposito di Cristina Campo, costantemente e delicatamente insidiata, nella sua sublime fragilità, dalla possibilità persistente ed estrema della morte: nella sua prosa c’è il «tono ineffabile del primato, la supremazia dell’ironico, il naturale rigetto di quel che è ipocrita»; «la musica si avvolge in lunghi quilismi sul tetragramma gregoriano della sua pagina».

Leggiamo in questo Tutto il mondo è palese: «Sentiva che in cielo non c’era nessun dio, ma l’azzurro gli piaceva ugualmente». Qui sembra di risentire, pur nella leggerezza alata e concisa dell’aforisma, il Mallarmé dell’Azur, la «sereine ironie» del «cielo morto». Al vuoto ontologico, all’abisso dell’esserci, non si reagisce che con il sorriso amaro o limpido, disincantato o sereno. «Sorrideva quand’era disgustato del mondo. Lo giudicavano pertanto felice». Anche la nausea e il disgusto possono convertirsi nell’erma di un sorriso che non distingue l’amarezza dall’amor fati, il rigetto dalla serena, o rassegnata, accettazione.

«Demotivato come un postino che sa di consegnare carta straccia». Questa può essere, in fondo, la stessa condizione odierna dello scrittore, dell’umanista in una società che alla letteratura, al tesoro millenario della parola scritta, sembra ormai non aver più nulla da chiedere. «Sapeva come sarebbe andata a finire. E perse il gusto di vivere». Qui sembra riverberarsi la percezione sveviana che «la vita è commedia», perché alla fine calerà il sipario, o il disincanto pirandelliano di chi «ha capito il gioco» e «non si inganna più», non cede più alle dolci lusinghe del vivere, alle rosee, per quanto fallaci, promesse dell’esistere nel mondo. Siamo immersi, come si vede, in un clima concettuale ed antropologico ancora pienamente moderno, novecentesco, e per questo, forse, paradossalmente inattuale, pur in una forma tipicamente postmoderna com’è quella, “disseminata” e apparentemente aleatoria, del frammento e dell’aforisma.

Uno stesso placido vuoto, uno stesso disincanto lucido e mite paiono calare, avvolgendole e fondendole l’una con l’altra, sulla vita e, insieme, sulla scrittura. Eppure, per un estremo e vitale paradosso, è proprio quest’ultima – nel momento stesso in cui si fa strumento tormentoso della coscienza del vuoto, della consapevolezza del nonsenso – che aiuta a vivere, che dà sostanza al tempo e anima ai giorni – se non, in qualche raro istante, pienezza e gioia.

«Se si continua a vivere», dice ancora Cioran, «è solo grazie alla scrittura»; «la creazione è una temporanea salvezza dagli artigli della morte».

«Vivo perché le montagne non ridono e i vermi non cantano». La parola, la scrittura sono il riso e l’assurdo che salvano, all’estremo, «in faccia al nulla», dalla morte.

«Non scriverò più», lasciava scritto, poco prima di andarsene, il Pavese del Mestiere di vivere.

Matteo Veronesi


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