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L’amore antirazzista della Suprema Corte

Balzac diceva che il matrimonio deve combattere contro un mostro che tutto divora: l’abitudine. Sì, ma al razzismo, si potrebbe aggiungere.

di Giuseppe Tramontana - martedì 9 agosto 2011 - 2924 letture

Passato un anno, ci risiamo. L’anno scorso ci eravamo occupati di una sentenza della Corte Costituzionale (la nr. 269/2010) in materia di legge sull’immigrazione e di discriminazione ai danni degli stranieri, complice una legge della regione Toscana che estendeva anche agli extracomunitari i benefici d’assistenza previsti per i cittadini. A distanza di un anno esatto, la Corte ritorna a picconare quella trincea anti immigrati messa su dall’attuale maggioranza di governo. Dove sta il problema? Il problema, rilevato in sede di impugnazione a quo dal Tribunale di Catania sta in questo: l’art. 1, comma 15, della L. 94 del 15 luglio 2009 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) ha modificato l’art. 116, comma 1, del codice civile, prevedendo, in caso di matrimonio misto tra un italiano e una straniera o viceversa, che le nozze fossero subordinate all’esibizione, da parte dello straniero, del “documento attestante la regolarità nel territorio italiano”. Insomma, se sei clandestino, niente matrimonio, niente amore, figli, nisba famiglia. Sic dixit Don Rodrigo-Maroni.

Balzac diceva che il matrimonio deve combattere contro un mostro che tutto divora: l’abitudine. Sì, ma al razzismo, si potrebbe aggiungere. Ma fortunatamente qualcuno che si ribella, in giro per l’Italia, c’è ancora. E in nome della decenza e del diritto. Così il Tribunale etneo ha pensato bene di impugnare la norma. L’antefatto, come nella migliore tradizione letteraria e teatrale, è dato dal desiderio di due ragazzi - italiana lei, marocchino lui - di sposarsi. Il 27 luglio 2009 i due avevano fatto richiesta allo stato civile della loro città di procedere alla pubblicazione della celebrazione del matrimonio, producendo la documentazione prevista dall’allora articolo 116 cod. civ., non ancora modificato. Il successivo 28 agosto avevano chiesto che il matrimonio venisse celebrato. Ma, a distanza di tre giorni, l’ufficiale di stato civile aveva negato la celebrazione in quanto, tra i documenti prodotti, era mancante il “documento attestante la regolarità del permesso di soggiorno del cittadino marocchino”, così come prevista dall’art., 116 cod. civ., come novellato dalla legge 94/2009, entrata nel frattempo in vigore. Da cosa nasce cosa e il tempo la governa. E così prese corpo il ricorso e quindi l’impugnazione.

Il tribunale catanese, nel prospettare l’illegittimità costituzionale della norma, ha evidenziato come essa si ponesse in contrasto con una serie di dettami di rango costituzionale. In primis, con l’art. 2 Cost., che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo che nelle formazioni sociali ove svolge la sua personalità. Segue la violazione dell’art. 3 Cost., per violazione del principio di eguaglianza e ragionevolezza, dell’art. 29 Cost., per violazione del diritto fondamentale a contrarre liberamente matrimonio e di eguaglianza morale e giuridica tra coniugi, dell’art 31 Cost. perché “interpone un serio ostacolo alla realizzazione del diritto fondamentale a contrarre matrimonio”, e dell’art. 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 12 Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). Ma non basta. Il giudice remittente indica altre norme che assume essere state violate. Ad esempio, l’art. 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, il già citato art. 12 della CEDU e l’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e successivamente recepita con il Trattato di Lisbona. Insomma, una bella norma , quella impugnata, che con una sola mossa si è posta in contrasto non solo alla Costituzione, ma a tutta la normativa fondamentale in materia di diritti civili universalmente riconosciuti. Non c’è che dire: sono soddisfazioni per gente come Bossi, Calderoli, Maroni, Berlusconi, Alfano… Ed infatti, costoro – o meglio, la Presidenza del Consiglio, rappresentata e difesa dall’Avvocatura dello Stato, sono intervenuti. La norma, ha detto l’Avvocatura, è stata scritta per motivi di ordine pubblico, per la sicurezza dei cittadini. La scelta del partner attiene alla sfera individuale del singolo. Pertanto, ove sussista un problema di bilanciamento di interessi da attuare, occorre che prevalga quello pubblico, della collettività, alla sicurezza (visto che il cosiddetto ‘clandestino’ afferisce ad “una situazione giuridica soggettiva valutabile negativamente da in punto di ordine pubblico e sicurezza”) piuttosto che il diritto a contrarre matrimonio, che attiene pur sempre ad una sfera personale. Senza contare il fatto che tale norma “tende a tutelare e soddisfare l’esigenza del legislatore di garantire il presidio e la tutela delle frontiere ed il controllo dei flussi migratori”.

Sarà, ma i rilievi governativi non hanno convinto la Suprema Corte, la quale, per prima cosa, ha ricordato come già in passato (sent. 61/2011, 187/2010, 306/2008) essa stessa abbia affermato che al legislatore italiano è certamente consentito dettare norme non palesemente irragionevoli e non contrastanti con obblighi internazionali, che regolino l’ingresso e la permanenza di stranieri extracomunitari in Italia. Ma tali norme devono sempre essere il risultato di un ragionevole e proporzionato bilanciamento tra i diversi interessi, di rango costituzionale, specialmente quando esse siano suscettibili di incidere sul godimento di diritti fondamentali, tra i quali rientra quello di “contrarre matrimonio, discendente dagli articoli 2 e 29 della Costituzione, ed espressamente enunciato nell’articolo 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e nell’articolo 12 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” (sentenza n. 445 del 2002).

Peraltro, la Corte riconosce la differenza tra cittadino e straniero (il primo ha un rapporto originario e comunque permanente con lo Stato, mentre il secondo ne ha uno acquisito e generalmente temporaneo) ed, in particolare, consentendo l’assoggettamento dello straniero “a discipline legislative e amministrative” ad hoc, l’individuazione delle quali resta “collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici” (sent. n. 62 del 1994), quali quelli concernenti “la sicurezza e la sanità pubblica, l’ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in tema di immigrazione. Tuttavia, resta un punto fermo e indiscutibile – dice la Corte – che i diritti inviolabili, di cui all’articolo 2 della nostra Costituzione, spettano “ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani”, sicché “la condizione giuridica dello straniero non deve essere pertanto considerata - per quanto riguarda la tutela di tali diritti – come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi”. Tutti rilievi non nuovi, d’altronde, considerato che di tale tenore è l’intervento della Corte con sentenza 249 del 2010.

Quindi – precisa la Suprema – benché la norma sub judicio sia stata dettata dalla preoccupazione di impedire i cosiddetti matrimoni di comodo, tutelando frontiere e controllando i flussi migratori, appare sproporzionato il sacrificio richiesto ossia la libertà di contrarre matrimonio non solo degli stranieri in Italia, ma anche dei cittadini italiani che intendono coniugarsi con i primi. D’altra parte, a dissuadere dal contrarre quel genere di matrimoni di comodo dovrebbe bastare quanto previsto dall’art. 30, comma 1-bis del D.Lgs. 286/1998, che prevede la revoca del permesso di soggiorno ove si appuri che al matrimonio non è seguita l’effettiva convivenza, salvo che dal matrimonio sia nata prole. La violazione si estende anche all’art. 117, comma 1, della Costituzione. A tal proposito, la Corte ricorda come anche di recente la Corte europea abbia affermato “che il margine di apprezzamento riservato agli Stati non può estendersi fino al punto di introdurre una limitazione generale, automatica e indiscriminata, ad un diritto fondamentale garantito dalla Convenzione (par. 89 della sentenza 14 dicembre 2010, O’Donoghue and Others v. The United Kingdom). E quindi, secondo i giudici di Strasburgo, la previsione di un divieto generale, senza che sia prevista alcuna indagine sulla veridicità del matrimonio, è lesiva del diritto di cui all’art. 12 della Convenzione.

In base a queste considerazioni, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 116, comma 1, del codice civile, come modificato dall’art. 1, comma 15, della legge 15 luglio 2009, n. 94, limitatamente alla previsione relativa alla produzione del permesso di soggiorno al momento di richiedere la celebrazione del matrimonio tra italiano/a e straniera/o.

Per il resto, se è vero, come diceva Richard Brinsley Sheridan, che, nel matrimonio, è bene cominciare con una leggera avversione, è meglio che questa avversione non sia rappresentata da una norma di legge: in fondo, dal 1938 non sono passati tanti anni.


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