Della violenza che atterrisce
Nella società post-moderna, meglio definirla della modernizzazione radicalizzata, ad alto impatto tecnologico, la “disumanizzazione” diventa sempre più evidente.
"Dal punto di vista giudiziario non abbiamo un movente tecnicamente inteso, dal punto di vista sociologico sono aperte più strade. Anche lui non si dà una spiegazione logica". Sabrina Ditaranto procuratrice (facente funzioni) del tribunale per i minorenni di Milano.
Una voce familiare l’altro ieri in prima serata mi informava di un ragazzo di 17 anni che aveva ucciso il fratellino dodicenne, la madre e il padre: ho pensato sul momento si trattasse di una fake news. “Chi te l’ha detto?”, “L’ho letto su Google”, incerto e scettico ho cercato di saperne di più, scarni i primi “lanci di notizia” da verificare e poi la conferma da fonti accreditate (Ansa e Rai).
Stamane riflettere e scrivere sulla “mattanza” di Paderno Dugnano, mi risulta difficile, complicato, problematico. Lo faccio perché ritengo importante fornire delle considerazioni che ritengo utili, per quel che mi compete, per focalizzare l’attenzione e tentare di spiegare e comprendere un accadere tanto tragico, inquadrandolo in un’ottica sociologica, nella prospettiva del “fenomeno sociale”.
La violenza soprattutto quella omicida non è mai gratuita: ha dei costi e viene pagata a caro prezzo. Ricade sui corpi e sulle menti, in primo luogo le vittime e consequenzialmente gli autori diretta espressione dell’atto. L’omicidio all’interno della famiglia suscita domande soprattutto se ritenuto sconsiderato, come appare a prima vista. Perché è successo, com’è stato possibile? Si può spiegare l’inspiegabile? “Non c’è un vero motivo per cui ho ucciso. Mi sentivo un corpo estraneo nella mia famiglia. Oppresso. Ho pensato che uccidendoli tutti mi sarei liberato da questo disagio. … Me ne sono accorto un minuto dopo: ho capito che non era uccidendoli che mi sarei liberato”.
L’adolescente omicida afferma: “Non è successo niente di particolare sabato sera. Ma ci pensavo da un po’, era una cosa che covavo. Non so davvero come spiegarlo. Mi sento solo anche in mezzo agli altri. Non avevo un vero dialogo con nessuno. Era come se nessuno mi comprendesse”.
Come uscire dall’oscurità del mistero, dell’enigma di quanto accaduto; tutti termini usati quando ci si trova di fronte all’orribile che fa inorridire. Spetta ai criminologi che stanno lontano dai riflettori mediatici e lavorano coscientemente in silenzio e solitudine raccogliere confessioni, documenti e testimonianze per fare luce sulla problematica specifica. Le domande del senso comune partono dal: “com’è potuto accadere”, “possibile che nessuno si sia accorto …”? La rabbia, il risentimento che si trasformano in odio facilmente possono degenerare in forme di violenza estrema. Ma perché così tanta aggressività e violenza? Da dove scaturiscono?
Facile utilizzare la categoria della follia, più problematico ricorrere al manifestarsi della devianza. Tutte le famiglie hanno un “lato oscuro” che tale rimane e a cui appare difficile accedere e rischiarare pubblicamente. “Vizi privati, pubbliche virtù”. Il dare un senso all’orrore rimane difficile se non impossibile da riconoscere e trovare nella realtà. Il male, la violenza che si annida tra le mura domestiche esprime sempre qualcosa di inquietante e devastante. Suscita indignazione quando viene perpetrato dai genitori, sconcerto quando gli atti di violenza nascono, generati dai figli.
I genitori sono responsabili dei figli, ne hanno fino alla maggiore età la cosiddetta patria potestà. Spetta al buon cuore dei figli occuparsi dei genitori anziani e ripagarli delle cure ricevute sin dalla più tenera età. Nella società post-moderna, meglio definirla della modernizzazione radicalizzata, ad alto impatto tecnologico, la “disumanizzazione” diventa sempre più evidente. Viene meno in modo evidente nell’assenza di empatia, la capacità di riconoscere l’altro, di identificarsi con esso e riuscire a comprenderlo: manca tutta quella sfera della sensibilità affettiva che ci differenzia sostanzialmente dagli animali. Manca la pietà, il sentimento di amore e compassione nei riguardi dell’altro.
Se un atto inconsulto è frutto degli istinti irrazionali, l’atto premeditato esprime la logica razionale che si prefigge di raggiungere l’obiettivo a cui si mira. La violenza, l’omicidio appartiene al tragico e pone domande a cui è necessario, anche se rimane difficile, dare e trovare risposta. Il “lessico familiare” oggi risulta sempre più impoverito, con genitori e figli che in casa vivono come corpi separati nello stare l’uno a fianco dell’altro, indifferenti, ignorandosi. Quando il malessere familiare diventa tossico ed esplode a chi assegnare la responsabilità?
Il simbolico che dà una visione esemplare della famiglia in termini ideali si può materializzare concretamente nel “diabolico” che quando si manifesta in essa atterrisce e terrorizza. Prevenire la devianza passa attraverso una rete articolata di relazioni, capaci e in grado di interagire e valorizzare i principi normativi fondamentali di riferimento e orientamento primari, con forme espressive di affettività e solidarietà da riconoscere e attivare per contenere l’emergere del “male liquido”.
Espressioni come: “cosa non farei per i figli”; “tengo famiglia;” “la famiglia viene prima di tutto: è la cosa più importante” si sentono sempre meno. Se istintivamente la famiglia esprime appartenenza e protezione oggi proprio la famiglia, quale spazio di oppressione e controllo dove si imparano le gerarchie, i ruoli di genere e il conformismo, viene sempre meno identificata quale luogo di rifugio e amore incondizionato e appare sempre più contesto di violenza. Una famiglia che facilmente opprime perpetua le disuguaglianze sociali ed economiche, grazie al patrimonio ereditato, alle reti di relazioni parentali, alle opportunità di educazione e carriera a esse connesse. Trasmettere da una generazione all’altra privilegi e svantaggi, consolida le ingiustizie strutturali e frena la mobilità sociale, così come l’atteggiamento privatistico depoliticizza la società e rafforza l’individualismo competitivo privato a scapito della dimensione collettiva e pubblica basilare per la società civile. La convivenza sociale basata sulla solidarietà fra estranei fa la differenza rispetto alla famiglia “tradizionale”: centralizzare la lealtà e la solidarietà in forma di unità chiusa e autosufficiente che sacralizza il privato mina la possibilità di costruire una comunità solidale, partecipativa e disgrega la sfera pubblica.
La società deve interrogarsi per evitare l’indifferenza dell’assuefazione. Il movente degli atti criminali orrendi, nel risultare incomprensibile, lascia esterrefatti e sgomenti. La violenza che inorridisce richiama la sicurezza necessaria e la prevenzione indispensabile. A vigilare devono essere le istituzioni con politiche attive, capaci di prestare attenzione al disagio e al malessere e di intervenire per contenerlo. I media, senza enfatizzare e spettacolarizzare i comportamenti aggressivi e violenti, hanno il ruolo importante di rendere consapevoli dell’accadere della complessità della realtà, soprattutto dove si cela il disagio e il malessere che inceppa e infiamma la mente.
Bisogna evitare di cadere nell’indifferenza e nelle trappole del capitalismo della sorveglianza che si appella a senso unico alla forza della repressione, intesa “salvifica e salutare” per rafforzare il valore della prevenzione sostenuti dall’agire relazionale che sa venire in aiuto e si propone di soccorrere chi, sin dai legami familiari, vive il quotidiano con inquietudine e malessere.
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