Il malinteso del "benevolent dictator"
Viviamo un’epoca di generale sfiducia nella politica, avvertita anche a livello internazionale. Il mondo si va sempre più globalizzando e l’azione politica, ancorata allo schema tradizionale degli Stati nazionali, si rivela inadeguata, perché, come sostiene Zygmunt Bauman, non possono esistere soluzioni locali a problemi generati a livello globale.
In un editoriale comparso qualche settimana fa sul “Corriere della Sera”, intitolato “L’illusione del dittatore”, Michele Salvati svolge interessanti riflessioni contro l’idea del “benevolent dictator”, cui verrebbe affidato il compito taumaturgico di porre soluzione ai mille mali di una democrazia paralizzata dai veti incrociati.
Viviamo un’epoca di generale sfiducia nella politica, avvertita anche a livello internazionale. Il mondo si va sempre più globalizzando e l’azione politica, ancorata allo schema tradizionale degli Stati nazionali, si rivela inadeguata, perché, come sostiene Zygmunt Bauman, non possono esistere soluzioni locali a problemi generati a livello globale.
Tuttavia, esistono problemi locali cui è possibile dare soluzioni locali, eppure la classe politica, come nel caso dell’emergenza rifiuti in Campania, dimostra una sconfortante incapacità prolungata nel tempo a offrire risposte appropriate alle esigenze della popolazione.
In Italia la crisi della politica ha raggiunto la soglia di attenzione, giacché, a margine dell’antipolitica, la crescente mancanza di fiducia del cittadino nelle istituzioni rischia di mettere in dubbio addirittura la bontà del metodo democratico.
Per fare le riforme strutturali necessarie ad imprimere al Paese la spinta modernizzatrice di cui ha bisogno, occorre sacrificare interessi particolari di gruppi, lobby, corporazioni, che finora si sono fatti valere nelle scelte politiche, orientandole secondo le proprie convenienze, e sono stati in grado di vanificare qualunque slancio innovatore. È ingenuo pensare che dall’oggi al domani il peso specifico degli interessi organizzati possa essere annullato, cosicché la democrazia italiana parrebbe essere condannata all’impotente stallo.
Da qui l’illusione che un dittatore illuminato possa fare uscire dal guado la situazioni politica, somministrando al Paese la cura indispensabile per affrontare il futuro con rosee aspettative.
Nel senso più elevato del termine, la politica è perseguimento del bene comune, nella cui sintesi è inevitabile che interessi specifici paghino un prezzo in nome dell’interesse generale. Perciò spesso servono scelte coraggiose e necessariamente impopolari.
La democrazia, nondimeno, non può prescindere dal consenso, e armonizzare interessi esclusivi di gruppi o classi con l’interesse della collettività è opera non facile. Decisioni importanti possono costare una sconfitta elettorale. Ne deriva che ogni categoria, che abbia capacità di aggregazione, ha in mano un efficace strumento di pressione, dato che il suo appoggio elettorale può avere una utilità marginale cospicua per chi ambisce a governare o a conservare il potere.
Il ceto politico italiano, dal dopoguerra in poi, è stato abile nel maneggiare le tecniche di raccolta del consenso, col risultato, per contro, che l’attività politica si è via via incancrenita nella abusata “concertazione”, un’arte di mediazione tra interessi di parte, la cui risultante è quasi sempre la neutralizzazione di ogni scelta.
Durante la Prima Repubblica la durata media di un governo era di appena sei mesi. I “franchi tiratori” e i partitini dall’esigua rappresentanza parlamentare che periodicamente affondavano le compagini governative erano la prova lampante della forza di ricatto delle minoranze.
Il processo decisionale democratico è per certi versi meno fluido rispetto a quello affidato ad una oligarchia o ad un dittatore. Il motivo è semplice: in esso hanno voce anche le minoranze e, se nella patologia il disaccordo che esse possono manifestare può essere inibente e nocivo, la loro partecipazione al procedimento deliberativo è normalmente un bene, perché l’interesse comune non si persegue con la brutale soppressione degli interessi delle singole componenti della società, bensì con il contemperamento di essi in un disegno collettivamente orientato.
Non è affatto vero che il metodo partecipato freni la crescita economica di una nazione. Oggi l’economia indiana galoppa a ritmi notevoli, nonostante le problematiche connesse alla democrazia più grande al mondo con quasi un miliardo di abitanti. Il suo sviluppo è un po’ più lento di quello cinese, ma senz’altro migliore perché nel sistema indiano i diritti umani trovano quel rispetto che ancora stenta ad essere riconosciuto in Cina.
Governare deriva dal latino “gubernare”, che letteralmente significa “reggere il timone”. Il non scontentare nessuno per non perdere base elettorale è l’antitesi del buon governo, poiché costringe all’impasse, alla rinuncia ad imprimere una qualsiasi direzione all’attività politica, a rincorrere le ambizioni e le pretese particolaristiche di individui e corpi intermedi perdendo di vista l’interesse della comunità. Chi governa deve esercitare una funzione di indirizzo politico, che non può fare a meno di estrinsecarsi in decisioni, le quali, per quanto attente alle necessità dei singoli, comportano necessariamente una opzione che non può sempre soddisfare tutti.
L’attività di governo non può prescindere da una rotta e deve quotidianamente confrontarsi con la difficoltà della scelta tra diverse alternative. Non si può governare senza decidere, altrimenti la funzione di governo si riduce a mera gestione di affari correnti.
In democrazia, è indispensabile che ogni decisione sia preceduta da un dibattito politico, che alla fine deve comunque approdare ad una deliberazione. Altrimenti l’attività politica si blocca e “mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata”: l’arretrato di problemi irrisolti esplode e manda a picco un paese (forse non vi è immagine più calzante di quella che in questi giorni inonda i mass – media, la marea di rifiuti accumulati che sommerge una città, una regione, metafora di quanto sta succedendo ad una intera nazione immobile e inerte da decenni di fronte a questioni essenziali di sopravvivenza).
Il vero problema è allora tradurre il metodo democratico in processo decisionale snello ed efficiente. Se l’imperativo è assicurare la governabilità, il rimedio alla frammentazione del panorama politico può anche consistere in una concentrazione del potere decisionale, purché ancorata al principio di responsabilità e soggetta al mandato popolare.
Non c’è, pertanto, alcun bisogno di declamare la resa della democrazia e agitare lo spauracchio del “dittatore illuminato”. Coniugare leadership e democrazia, efficienza decisionale e controllo democratico è senz’altro possibile, come dimostra l’esperienza riuscita del semipresidenzialismo francese o del presidenzialismo americano, in sistemi dove le prerogative democratiche sono robuste e fuori discussione.
Le esternazioni dell’on. Franceschini, numero due del Partito Democratico, in favore del sistema presidenziale e del doppio turno alla francese, possono utilmente rappresentare una intelligente base di partenza per una seria riforma istituzionale. A condizione che si resti consapevoli delle non negoziabili radici democratiche della nostra Costituzione.
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