Per un nuovo civismo ambientale

di Giuseppe Artino Innaria - venerdì 6 novembre 2009 - 2685 letture

La questione del dissesto idrogeologico non è una novità nel nostro Paese, ma a renderla di attualità ci pensano ciclicamente e non infrequentemente le tragedie, sfiorate e consumate, spesso annunciate, provocate da una dissennato governo del territorio.

Il disastro di Giampilieri è l’ultimo in ordine di tempo e l’ennesimo campanello d’allarme, che, si spera, illumini definitivamente le menti dei politici e mobiliti l’opinione pubblica su un problema che richiede interventi non più differibili ed una politica di gestione ambientale di lungo periodo.

Non tutto è imputabile agli enti che hanno competenza diretta su una determinata area o alle popolazioni che vi vivono.

Il ripetersi sempre più regolare, in certi periodi dell’anno, di piogge torrenziali è un fenomeno conseguente alla tropicalizzazione del clima, effetto di mutamenti prodottisi su scala globale.

La conformazione naturale dei luoghi è un dato di fatto, che prescinde dal fattore umano, ma con cui bisogna comunque fare i conti.

Rimane, però, che l’uomo ci mette molto del suo.

L’urbanizzazione selvaggia si spinge talvolta laddove la prudenza sconsiglia di costruire. Epure la legge Galasso stabilisce la totale inedificabilità nelle aree alpine al di sopra dei 1600 metri, nelle aree appenniniche al di sopra dei 1200 metri, a distanza di 300 metri dalla riva di mari e fiumi e di 150 metri dalle sponde di fiumi e torrenti, sui vulcani, nelle paludi. Spesso non è nemmeno colpa dell’abusivismo, quanto piuttosto di una pianificazione poco previdente, incauta e non sempre immune dai condizionamenti degli appetiti speculativi.

La regimentazione delle acque non è adeguata: arginazione incompleta o del tutto assente di fiumi e torrenti, strade realizzate senza gli accorgimenti elementari per raccogliere opportunamente gli scoli di origine piovana, manutenzione delle opere insufficiente, tombini lasciati intasati, una cementificazione che ha invaso numerosi torrenti e, in campagna, ha soppiantato la muratura a secco, più efficace nel garantire il regolare deflusso e lo smaltimento delle acque meteoriche. L’elenco delle carenze è solo esemplificativo ed è sotto gli occhi di chiunque la vistosità dei guasti.

La deforestazione e gli incendi, l’assenza di coltivazioni sono ulteriori cause di degrado che favoriscono frane e smottamenti.

Che fare? I rimedi ci sono, ma non possono che essere affidati ad una azione prolungata negli anni, se non nei decenni. È illusorio che in un breve arco temporale possano essere riparati i danni di una poco oculata politica del territorio.

Secondo la felice intuizione di Ulrich Beck, quella attuale è stata definita la società del rischio. La gestione dell’ambiente deve passare, dunque, dalla cultura dell’emergenza a quella della pianificazione attenta alla previsione del rischio.

Tuttavia, se si vogliono evitare in futuro nuove catastrofi, urge un nuovo civismo. È diffuso il modo di intendere le res communes come res nullius. È tempo di riflettere che, invece, la tutela dei beni collettivi è condizione essenziale del godimento dei beni individuali e che a volte l’imprudente aggressione ai beni di tutti viene pagata con la vita preziosa di vittime innocenti. Solo riappropriandoci di un senso del territorio connotato da identità e appartenenza comunitaria, potremo conseguire maggiore rispetto per le esigenze dell’ambiente ed una maggiore armonia con lo spazio che ci circonda, divenuto più amico e meno estraneo e gravido di pericoli.

Gli Italiani curano e difendono con tenacia i propri spazi privati, ma non mostrano uguale attenzione per lo spazio pubblico, quasi fosse una no man’s land in cui taluni possono anche pensare che tutto o quasi sia permesso.

Nessuna svolta all’orizzonte finché non avvertiremo questa Italia davvero nostra.


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