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Giochi di mafia

Vince il Premio "As d’Or" 2024 in Francia un gioco prodotto dalla tedesca Boardgame Atelier ed è polemica in Italia

di francoplat - mercoledì 5 febbraio 2025 - 504 letture

L’Europa non si smentisce, fatica a trovare una lingua comune, una comune griglia valoriale.

Che cosa è successo? Il gioco “La famiglia – The Great Mafia War”, ideato da Maximiliam Maria Thiel e volto a simulare la guerra di mafia degli anni Ottanta in Sicilia, è sbarcato nel nostro Paese, distribuito da molte piattaforme online, e ha immediatamente suscitato le reazioni indignate di Maria Falcone, sorella di Giovanni, oltre che dell’onorevole Alessandro De Leo di FI, il quale ha chiesto al presidente della Regione Sicilia, Renato Schifani, di contrastare in ogni modo la diffusione di questo risiko in salsa siciliana che offende la memoria di chi è caduto per contrastare la violenza mafiosa.

The Great Mafia War invita i partecipanti a competere per il «controllo dei mandamenti delle famiglie mafiose siciliane», avvalendosi di autobombe, uccidendo soldati, costruendo laboratori per le droghe e le barche per trasportare gli stupefacenti e per il contrabbando. Insomma, è in gioco il dominio sulla Sicilia ed è necessario avere sangue freddo e capacità strategiche, costi quel che costi.

Il sessantaduenne Thiel, progettista tedesco di giochi da tavolo, fatica a comprendere le ragioni di tanto clamore attorno alla sua creatura. Attraverso alcune interviste al “Guardian” e a “La Repubblica”, Thiel spiega che il suo intento non era certo quello di offendere la memoria delle vittime, che «nel gioco solo i mafiosi muoiono, eliminandosi a vicenda», che la sua ideazione, infatti, tratta di vicende tutte interne alla criminalità, che non intende affatto banalizzare la lotta al crimine mafioso e, ancora, che «ci sono più di 500 giochi sulla mafia in commercio […]. Sono convinto di non aver fatto nulla di male».

A ben vedere, Thiel qualche ragione ce l’ha. Chi scrive non è in grado di computare con precisione il riferimento quantitativo del progettista tedesco ai cinquecento giochi in commercio aventi quale tema quello mafioso, ma da una rapida navigazione in Rete affiorano, qua e là, le tracce piuttosto evidenti di una certa affezione dei creatori di gioco – da tavolo oppure online – per Cosa nostra e compagnia bella. Non che ci fossero dubbi a riguardo; il tema della commercializzazione del brand mafioso era già stato trattato su queste pagine e anche di recente ci si era tornati, con un riferimento ai souvenir mafiosi venduti nel centro di Palermo e osteggiati ad Agrigento dal sindaco della città.

«Sei pronto a diventare il più famigerato Boss della Mafia»? Questo chiede ai potenziali acquirenti di “The Grand Mafia Global” (progettato per iPad) la piattaforma; una vicenda accattivante, a quanto pare, perché «è dalla morte del nostro vecchio Padrino che all’interno della famiglia si sente la mancanza di un forte leader, una persona che possa unire tutte le bande mafiose». Dunque, si rende necessario che il giocatore più abile riunisca ladri, mercenari, atleti (sic!), uomini d’affari per conquistare l’intero mondo mafioso.

Magari, dopo aver dominato sull’iPad, ci si potrebbe volgere a un gioco di strategia, “Mafia World: Bloody War”, interpretando il ruolo di un mafioso costretto a occuparsi degli affari della “famiglia” dopo essersene allontanato, perché suo padre, il capo dei capi, è stato assassinato ed è necessario rimettere a posto le cose. Insomma, non c’è pace nell’universo ludico delle mafie. Ma le prospettive sono allettanti, almeno stando a quanto prometteva pomposamente “La Cosa Nostra”, un gioco da tavolo gestionale ormai fuori distribuzione. La descrizione dettagliata non chiede commenti: gli ideatori spiegano che si avrà l’occasione di «giocare nel ruolo di un boss della mafia alle prese con la gestione di tutte quelle attività malavitose che vi permetteranno di guadagnare una quantità spropositata di denaro sporco, ma pur sempre denaro (grassetto mio)! Arruolate nuovi gangster per le varie attività tra cui estorsioni, corruzioni, traffico di droga e prostituzione, ogni tipo di attività non vi spaventa!».

Si delinea un quadro sul quale diventa difficile moralizzare. Guadagnare una quantità spropositata di denaro, magari con metodi illeciti, è davvero così dissonante come messaggio rispetto a quello che apprendiamo giorno dopo giorno? Un po’ come le pubblicità meno candide, i giochi da tavolo spazzolano dalla realtà meccanismi e dinamiche, slogan e mantra condivisi, li sdoganano ammorbidendoli su un ripiano di cartone, li sublimano mitigandone le asperità materiali – in fondo non è denaro vero e i morti sono morti finti – e consentono ai meno talentuosi in materia criminale, ai deboli che si dicono buoni perché non hanno unghie per graffiare – parafrasando liberamente Nietzsche – di avere almeno una rivincita ideale nel mondo di carta.

Se entriamo, come promette la pubblicità del gioco, in “Rio Crime City”, inizieremo la nostra ascesa come delinquenti alle prime armi nei bassifondi di Rio, potremmo scalare «la vetta come [temuti] boss mafiosi» e dominare «la città attraverso brutali guerre tra gang, audaci rapine e inseguimenti ad alta velocità». Lo stesso accade in “Mafia Kings”, gioco da tavolo nel corso del quale, «con il tuo esercito di mafiosi e gangster, dovrai reclutare capi da una varietà di bande criminali tra cui Yakuza, Cosa nostra e la mafia irlandese, per costruire la tua squadra e affrontare il potente boss della banda a guardia di ogni territorio del consiglio».

Ecco, il potere è servito! Chissà cosa ne pensa il potere non virtuale, quello politico, di questa proliferazione di giochi dal sapore mafioso. Cinque anni fa circa, fu una deputata grillina, Stefania Ascari, a presentare un’interrogazione al presidente del Consiglio dei ministri, al ministro dell’Interno, a quello dello Sviluppo economico e a quello della Giustizia, ponendo la domanda diretta: «può un videogioco contribuire ad accreditare un’immagine ‘positiva’ della criminalità organizzata, spingendo i giovani ad adoperare una certa indulgenza nel giudicare il comportamento animalesco di chi ammazza a sangue freddo»? E, a titolo esemplificativo, citava alcuni prodotti che si aggiungono a quelli sopra riportati: “Mafia City”, “Mafia Empire”, “Mafioso: giochi di gangster”, “Gioco della Mafia”, “City Mafia Gods”, “Mafia Familes” e, ancora, “Narcos: Cartel Wars”.

Non risultano risposte decisive alla domanda. Ma l’estroso progettista tedesco dell’ultima creazione in merito non argomenta in modo errato quando afferma che, in commercio, vi sono decine e decine, centinaia di prodotti consimili. Perché, dunque, sbraitare tanto? Senza considerare che non ci si dovrebbe indignare per un gioco quando la pedagogia nera, la catechesi della violenza quale mezzo di asservimento dell’uomo sull’uomo o su ogni altro aspetto del creato, è largamente dispensata dalla realtà, diffusamente elargita da un modello di relazioni umane che, come si è detto, non disdegnano l’affermazione economica a discapito dell’altro anche attraverso i mezzi più ignobili. Forse, ci siamo dimenticati perché le mafie allignano e si espandono? Sarà colpa dei videogiochi. Oppure, abbiamo dimenticato i tanti nuovi schiavi che garantiscono l’adeguato rifornimento di coltan per i nostri cellulari o di conserve per i nostri sughi?

Thiel, il creatore di The Great Mafia War, probabilmente non merita di ricevere il Nobel per la pace, né di essere annoverato tra le più luminose figure di pedagogisti del nuovo millennio. Ma, se dovessimo iniziare seriamente una qualsiasi forma di contrasto alle mafie, dovremmo cercare altrove, là dove i soldi e i morti sono veri, in quell’alambicco della realtà dove si produce l’esito più infausto del sapiens, il gorillone egoista e rapace che Thiel e compagni identificano come un efficace strumento per propagandare i loro prodotti e, perché no, assicurarsi qualche profitto. Pecunia non olet.


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