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Nuccio Anselmo al liceo Cottini di Torino

«Ci sono alcune zone della Sicilia, e Messina è una di queste, che hanno sofferto sin dagli anni Settanta di una forte sottovalutazione del sistema mafioso che era già radicato nelle città e soprattutto nella provincia tra Barcellona (Pozzo di Gotto), Mistretta, Milazzo e i Nebrodi»

di francoplat - mercoledì 16 aprile 2025 - 465 letture

«Dire che Messina è una provincia babba è una castroneria totale». È una delle osservazioni che Nuccio Anselmo, ritagliato nel riquadro della webcam, pronuncia dinanzi ai docenti del Piemonte del corso di formazione sulle mafie nel pomeriggio dello scorso venerdì 11 aprile. È il terzo ospite della serie, dopo Rino Giacalone e Paolo Borrometi. Un altro siciliano, messinese stavolta, là dove gli altri sono, rispettivamente, trapanese e ragusano. Un altro giornalista, legato a “La Gazzetta del Sud”, con la quale ha seguito, negli ultimi vent’anni, i più importanti casi di cronaca giudiziaria e i principali processi e per la quale si occupa anche di archeologia e di storia cittadina. Nel 2019, ha pubblicato, con Giuseppe Antoci, “La mafia dei pascoli. La grande truffa all’Europa e l’attentato al Presidente del Parco dei Nebrobi” (Rubbettino Editore) e, più di recente, una raccolta di poesie e di racconti brevi dal titolo “Parlami madre” (La Feluca edizioni, 2024). Un volume, come confessa lui stesso, che gli è servito per disintossicarsi dalla cronaca.

L’intervento di Anselmo ha un titolo inequivocabile: “Messina e la mafia tra sottovalutazioni e collusioni” e il discorso di un’ora e più del giornalista messinese si muove con robuste argomentazioni, “fatti” alla mano, in questa direzione. Sin dall’esordio – «ci sono alcune zone della Sicilia, e Messina è una di queste, che hanno sofferto sin dagli anni Settanta di una forte sottovalutazione del sistema mafioso che era già radicato nelle città e soprattutto nella provincia tra Barcellona (Pozzo di Gotto), Mistretta, Milazzo e i Nebrodi» –, Anselmo osserva come la realtà catanese e quella palermitana abbiano assorbito l’attenzione mediatica, per quanto ciò che è accaduto nel Messinese, in termini di guerra di mafia e di morti ammazzati, non abbia nulla da invidiare a quanto si verificò nei casi più noti degli altri due capoluoghi siciliani; ma, nonostante ciò, è stato ampiamente minimizzato.

Un’attenzione ridotta, dunque, tanto dei media quanto degli storiografi o dei sociologi, che ha contribuito a inspessire la cornice mafiosa messinese, e che risulta ancora più strana se si considera la peculiare posizione geografica della città, a cavallo tra Calabria e Sicilia, tanto da essere un territorio di forte «interscambio di interessi di Cosa nostra siciliana e della ‘ndrangheta calabrese sin dagli anni Settanta». Un territorio, peraltro, ambito da quei mafiosi che avevano problemi di sopravvivenza, o per faide interne o perché ricercati in modo pressante dallo Stato, e che in quelle zone andavano a “svernare”. Tra gli altri, Nitto Santapaola e Michelangelo Alfano, quest’ultimo legato al mandamento di Bagheria dei Greco: «ce lo vediamo piombare in città, e diventa addirittura presidente della squadra di calcio del Messina, per alcuni anni servito e riverito da tutti e, poi, improvvisamente – ma su questo improvvisamente ci sarebbe tanto da discutere – la città scopre che in realtà è un mafioso».

Messina ha anche altre peculiarità, a partire dalla rilevante quantità di logge massoniche, le onnipresenti logge già evidenziate, per la provincia di Trapani, da Rino Giacalone. È una delle prime città in Italia per ciò che concerne la presenza massonica, osserva Anselmo, che si allargano pure alla provincia, ed è, inoltre, snodo del traffico di armi, così come sede di «una delle cellule organizzate più importanti della struttura di Gladio […] e nessune ci dice se questa sua forte cointeressenza e partecipazione a Gladio sia stata spenta del tutto o ancora addirittura non prosegua». E la città è stata anche, per via della sua università e per l’assenza di accademie di livello in Calabria, lo spazio in cui si sono create delle saldature tra esponenti della ‘ndrangheta e universitari neofascisti. Tra questi ultimi, l’ospite del Cottini cita Pietro Rampulla e Rosario Pio Cattafi; due nomi importanti, coinvolti nei primi anni Settanta in una sparatoria a colpi di mitra nella casa dello studente. Ne descrive brevemente la caratura acquisita nel tempo, Anselmo: Cattafi, l’uomo di Santapaola, dei traffici di droga a Milano, legato alla mafia barcellonese, e Rampulla, l’artificiere della strage di Capaci, originario di Mistretta, con rapporti diretti con i palermitani, fratello di quel Sebastiano che è stato per anni il rappresentante provinciale di Cosa nostra per tutta la provincia di Messina.

Per dare forza al suo impianto argomentativo, Anselmo presenta, poi, alcuni episodi utili all’intelligenza del problema, ossia relativi al dinamismo mafioso messinese e alla scarsa attenzione dello Stato nei suoi confronti. Stando alle dichiarazioni di Francesco Marino Mannoia, spiega il relatore, nei dintorni di Barcellona era stata impiantata una delle raffinerie di droga più grandi della Sicilia, in un momento storico in cui la regione era il network principale dello spaccio in tutta Europa. Non a caso a Barcellona, perché, «ve lo anticipo, quello barcellonese è il gruppo storicamente più forte e meglio armato di tutta la mafia, anche di quella di Messina». Eppure, agli occhi dello Stato, della Commissione parlamentare antimafia, la mafia in quella provincia era assente: fatta eccezione per Catania, se si leggono le analisi sociologiche e tecniche di quel periodo, «non troverete un’enclave mafiosa specifica indicata o un comportamento mafioso della società civile nella Sicilia orientale. Lo Stato, in sostanza, aveva abbassato la guardia al punto tale da non percepire affatto in quel determinato momento storico i primi inequivocabili segnali che a Messina stava nascendo quello che alcuni rapporti iniziali chiamavano crimine organizzato».

Per anni, permase il silenzio attorno a Cosa nostra in provincia di Messina. Un primo interessante documento nel quale si sottolineava il pericolo rappresentato dall’organizzazione criminale locale è un rapporto dei carabinieri stilato nei primi anni Settanta. Gli uomini dell’Arma annotavano che, nel Messinese, si stava creando un reticolo mafioso e sollecitavano lo Stato a non sottovalutare la situazione; ma lo Stato la sottovalutò. Lo dimostra la vicenda esemplare di due boss messinesi degli anni Settanta e non solo, ossia Alessandro De Tullio e Lorenzino Ingemi; il primo dal profilo basso, un dipendente della società del Totocalcio, che passò la sua carriera criminale senza condanne per mafia e senza pene detentive rilevanti; l’altro, più «fosforescente», secondo le parole del relatore, gestiva il racket delle estorsioni e, negli anni ’90, diventò – per breve tempo, anche per via delle reazioni della società civile e dell’amministrazione comunale – presidente del Messina calcio.

La vicenda in cui li colloca Anselmo è, di per sé, accattivante, se così si può dire, ed esemplare delle sottovalutazioni. I due furono imputati in un processo per aver avuto il ruolo di pacificatori in una lite tra clan, scoppiata per la gestione delle estorsioni e del traffico di droga. Bene, il rito di riconciliazione si svolse, «fregandosene altamente dello Stato e di quello che rappresentava, all’interno del carcere mandamentale di Rometta. Come viene indetta questa riunione? Con un bel pranzo, dalle nostre parti si chiama schiticchiata, insomma una mangiata tra i due gruppi assieme ai pacificatori Ingemi e De Tullio, ai quali indubbiamente era riconosciuto il ruolo di capi». Aspettandosi la perplessità dei docenti, Anselmo spiega che non sta raccontando delle fandonie, ci sono gli atti processuali, spiega, «quel giorno vengono aperte tutte le celle col benestare del direttore del carcere e dei secondini e si allestisce una tavola imbandita nel cortile della casa circondariale. […] Ovviamente, tutta questa storia finisce in un processo. E che succede a De Tullio e a Ingemi? Udite, udite, il giudice li assolve perché, dice una sentenza che ho visto con i miei occhi, loro non avevano colpe, perché avevano avuto solo il ruolo di pacificatori tra i due gruppi; volevano mettere, eh, una buona parola per evitare ulteriori spargimenti di sangue». Due pacifisti da Nobel.

Insomma, in una realtà all’interno della quale esistevano segnali evidenti della presenza mafiosa, lo Stato latitava, in tante sue giunture istituzionali. Se il direttore del carcere e gli agenti penitenziari chiusero un occhio davanti alla schiticchiata e i magistrati ne chiusero due davanti al ruolo di De Tullio e Ingemi, le vicende giudiziarie messinesi degli anni Ottanta, parallele a quelle palermitane e successive alla creazione del 416 bis, dimostrano la fondatezza dell’assunto generale di Anselmo, cioè della sottovalutazione del fenomeno e, soprattutto, delle collusioni. Nel 1983, Ingemi e altri soggetti vennero arrestati per associazione a delinquere di stampo mafioso; il processo, in primo grado, condannò il gruppo criminale, ma in appello, «colpo di scena – dovuto al fatto che anche nella nostra città, come è stato negli altri centri, ci sono stati dei magistrati collusi e in mano a Cosa nostra – Ingemi viene assolto assieme a tutti gli altri coimputati».

Il discorso su De Tullio e Ingemi, si lega poi, nelle parole di Anselmo, alla presenza ‘ndranghetista nella città e nella provincia, nel senso che l’avvento dei boss continentali determinò la perdita di egemonia dei capi mafia locali. Una presenza databile, almeno, dagli anni Settanta, con una forte influenza delle famiglie calabresi mafiose dei Piromalli, dei Macrì, dei Tripodo sulla realtà messinese e con l’ascesa di Gaetano Costa, affiliato alla ‘ndrangheta e che portò, di fatto, struttura, stile, riti e qualifiche della criminalità calabrese nella città di Messina. Costa che, nei primi anni Novanta, si pentì e fornì indicazioni importanti sulla geografia mafiosa della città sullo Stretto, ma che, nel 1982, subì un primo processo – detto dei 69 – che si concluse con la condanna di 37 imputati. Tuttavia, «con una gravissima miopia giudiziaria», la condanna fu per associazione a delinquere non di stampo mafioso; ulteriore disattenzione, per così dire, nei confronti della presenza di Cosa nostra a Messina.

Più clamoroso ancora fu un altro processo, un maxi-processo, parallelo a quello più noto di Palermo, che vide coinvolti 283 imputati, istituito, a partire dall’aprile1986, nell’aula bunker del carcere di Gazzi di Messina. Alla sbarra, nuovamente Costa, Ingemi, Carmelo Milone, boss di Barcellona, e altri. La città di Messina parve, allora, prendere coscienza del fatto che il fenomeno mafioso era sbarcato in città, per via del clamore destato dall’evento giudiziario, per via delle cronache che raccontavano di udienze infuocate: urla, schiamazzi, insulti, minacce. Non solo minacce a vuoto; una scarpa lanciata contro l’avvocato Nino D’Uva – noto e prestigioso avvocato che difendeva 13 imputati – fu il segnale ai killer che lo stesso Costa diede per decretare l’eliminazione di un difensore giudicato troppo morbido davanti alla Corte. Il giovane Placido Dino Calogero, allora diciannovenne, raccolse il segnale del boss e freddò l’avvocato nel suo ufficio; uno fra i tanti omicidi e attentati, ad altri avvocati e a parenti dei collaboratori di giustizia, che accompagnarono le udienze, il più clamoroso, per quanto rimasto anni nell’oblio.

Ma, al di là di questo e di altri feroci fatti di sangue che si susseguirono durante e dopo il processo, è l’esito di quest’ultimo a risultare clamoroso: la montagna partorì il topolino. E non per caso, sottolinea Anselmo, perché, fra le altre cose, a presiedere la Corte vi era Domenico Cucchiara, «magistrato che i collaboratori di giustizia diranno essere stato letteralmente in mano alle cosche mafiose messinesi», e quella Corte emise «una sentenza a dir poco scandalosa»: dei 245 imputati rimasti, solo 65 furono condannati, 163 assolti per non aver commesso il fatto, 17 per insufficienza di prove. A Costa andò la condanna più pesante, 13 anni, ma Lorenzino Ingemi venne assolto, con il suo clan, perché i magistrati ritennero che non si poteva dimostrare la capacità di intimidazione diffusa da parte dei criminali e l’assoggettamento e l’omertà delle vittime. «Niente di più falso, ovviamente. Perché anche i muri a Messina hanno vissuto una serie lunghissima di intimidazioni dal gruppo di Lorenzino Ingemi». I pm, Franco Providenti e Italo Materia, commentarono criticamente la sentenza: il primo disse che il verdetto non corrispondeva affatto alla realtà criminale esistente a Messina; il secondo, riferendosi al delitto D’Uva, «parlò di bagliori di inaudita ferocia, concludendo che il delitto fu compiuto per influire sul maxi-processo».

E se il verdetto del maxi-processo, di fatto, negò l’impianto accusatorio dei pubblici ministeri, la cronaca messinese, come ogni realtà che si rispetti e che si sottrae ai camuffamenti, confermò che la città era tutt’altro che esente dalla mafia. Tra il 1986 e il 1992, si assistette, racconta il relatore, a un’impressionante serie di omicidi – 47 nel solo anno 1992, superiori, forse, a quelli palermitani – per una guerra interna che trasformò Messina in Beirut, come quando si attentò alla vita del boss Giuseppe Leo, davanti a un supermercato, distruggendone l’ingresso. Leo sarà ucciso successivamente, da un amico, durante una bevuta di whisky, nella sua villa-fortezza. Quei morti ammazzati, precisa Anselmo, stavano lì a dimostrare quanto grave fosse la sottovalutazione del fenomeno. Ma, aggiunge prima di terminare, una serie di indagini e di processi hanno, negli ultimi decenni, ridotto significativamente il pericolo mafioso: a partire dagli anni Novanta, lo Stato «ha risposto in maniera chiara a tutto quello che era successo prima […] e possiamo dire che, oggi, tutti i capi riconosciuti a Messina, a Barcellona Pozzo di Gotto e sui Nebrodi sono tutti al 41bis o sono tutti in galera».

Mafia debellata, dunque? Non proprio. Anselmo chiude la prima parte dell’incontro con una sottolineatura positiva, un cambiamento nell’approccio dello Stato al problema mafioso che ribadisce, in parte, quando si presta alle domande dei partecipanti al corso, mostrando, però, i chiaroscuri del problema. Se della questione delle truffe mafiose nel parco dei Nebrodi, riferendosi alle scelte dell’allora presidente Giuseppe Antoci, parla in termini di un’azione amministrativa ordinaria che diventa, in alcuni territori, straordinaria ed eroica e porta all’estromissione degli interessi criminali da quel parco, circa la città di Messina osserva come sul piano della società civile siano stati fatti dei passi avanti – dalla presenza di Addio Pizzo a quella di Libera, in città – ma non c’è ancora, afferma, «il passaggio finale in cui la società civile tutta, nella sua interezza, rifiuta il rapporto con la mafia». Ciò a partire dall’imprenditoria locale, a cui quel rapporto giova, come dimostra la presenza di avvocati e professionisti intranei a una cosca presente a Messina e derivante da una costola del clan Santapaola, come è emerso in recenti indagini. Né Anselmo manifesta un grande ottimismo circa il tema della visibilità del fenomeno mafioso: la sua scomparsa dalle agende politiche lo rende più evanescente e meno accattivante per i media: «le analisi, le ricostruzioni cominciano a diventare “seccanti” per alcune testate anche grandi e si creano problemi anche a chi scrive di queste cose per trovare lo spazio adeguato».

Risponde anche sul caso Attilio Manca, rilevando come ormai più nessuno creda alla tesi del suicidio da eroina, ma precisando, inoltre, che la revisione di questa tesi richiederà molti anni, «perché la verità è già stata costruita e non è molto facile scalfirla». E cita, a proposito, la morte di Graziella Campagna, trattando la questione della ricerca della verità; una verità venuta a galla sostanzialmente grazie alla testardaggine del fratello carabiniere di Graziella. «Probabilmente, allo Stato non interessa, purtroppo, la verità. […] È un dato di fatto che ancora non abbiamo la verità sulle stragi nere degli anni a cavallo tra il Settanta e l’Ottanta», e, a quanto pare, anche l’episodio di Graziella Campagna e quello di Beppe Alfano, ucciso a Barcellona Pozzo di Gotto, ricadono nella stessa cornice. «Lo Stato non vuole la verità perché tirare fuori tutte queste collusioni e questi depistaggi che ci sono incontrovertibilmente anche in queste vicende creerebbe dei problemi, come dire, di sopravvivenza». Quanto ad Alfano, sottolinea di avere dei dubbi sulla verità processuale: «sostengo ormai da parecchio tempo che il soggetto barcellonese che è in carcere e sta finendo di scontare la condanna a 21 anni e mezzo come esecutore materiale dell’omicidio Alfano, non è colui che ha ucciso Alfano».

Luci e ombre, appunto. L’equilibrio pare fragile, la città e la provincia, in parte epurate dalle cosche più soffocanti, non sembrano ancora del tutto rinsavite, al sicuro dal richiamo delle relazioni pericolose. Soprattutto quella Messina che, nel corso di un interrogatorio, il collaboratore di giustizia Angelo Siino definì «l’università della mafia». A dispetto di chi, per decenni, ha voluto considerarla, per negligenza o malizia, “babba”.

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