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Una tiepida lotta alle mafie: Paolo Borrometi al Liceo Cottini di Torino

“Ma perché l’avete votato?”; loro dicevano “Perché ci aiuta, perché ci dà da mangiare, perché ci dà lavoro”

di francoplat - mercoledì 26 febbraio 2025 - 532 letture

Se si dovesse cercare un filo rosso all’intervento del secondo relatore al corso sulle mafie per docenti del Piemonte – organizzato dal liceo artistico torinese “Renato Cottini” e dalle Agende rosse locali –, lo si potrebbe trovare in una disamina indignata e dura nei confronti di una parte del Paese che, ieri come oggi, pare aver cercato più una convivenza, opportunistica o lassista, che un serio e continuativo contrasto al fenomeno mafioso. A parlare in streaming agli iscritti al corso, venerdì 21 febbraio in orario pomeridiano, è stato Paolo Borrometi, condirettore dell’Agi, presidente di “Articolo 21”, autore di saggi importanti, quali “Un morto ogni tanto. La mia battaglia contro la mafia invisibile” (2018) e “Traditori. Come fango e depistaggio hanno segnato la storia italiana” (2023). Un giornalista che, come e più di altri cronisti coraggiosi, ha conosciuto sul proprio corpo, e non soltanto, la violenza mafiosa, essendo stato vittima di un’aggressione, nel 2014, che gli ha causato una menomazione permanente alla spalla e che ha comportato, anche a seguito di successive minacce di morte, il trasferimento a Roma e l’adozione di una vita sotto scorta, con tutte le restrizioni che tale quotidianità implica. Un impegno giornalistico e civile che, insieme ad altri riconoscimenti, gli ha consentito di ricevere, nel 2015, dalle mani del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, l’onorificenza di Cavaliere dell’ordine al merito della Repubblica italiana.

Dunque, è questo analista delle mafie, in particolare di quella siciliana, che si è interfacciato ai docenti, scegliendo la strada di un dialogo a due, piuttosto che di una relazione frontale. Nel corso della prima ora e mezza, infatti, Borrometi ha risposto alle domande del sottoscritto e, nell’ultima parte dell’incontro, ha interloquito con altri insegnanti. Data la lunghezza del botta e risposta, non è possibile in questa sede riportare testualmente tutte le parole dell’ospite del Cottini; ragione per la quale si sceglie di evocare alcuni dei passaggi chiave, citandoli testualmente in qualche caso e riassumendoli in altri.

Può essere utile porsi dinanzi a Borrometi e alla sua idea di giornalismo, innanzitutto. Alla domanda sul suo lavoro, su cosa significhi fare giornalismo d’inchiesta in Italia e su cosa pensa dei media nostrani circa il loro racconto delle mafie, il cronista risponde d’aver scelto questa professione anche per via di una frase “tremenda” che ripetutamente si è sentito dire, ossia «ah, ma io non lo sapevo». Più ancora del lavoro della magistratura – sostiene Borrometi – è fondamentale quello dei cronisti ed evoca l’articolo 21 della Costituzione, nel quale il diritto-dovere della stampa di informare si associa al diritto-dovere del cittadino di essere informato: «perché solo con l’informazione, solo con la conoscenza, il cittadino potrà scegliere da che parte stare».

Il problema è duplice agli occhi di Borrometi. Da un lato, infatti, abbiamo un giornalismo tiepido, che «ha raggiunto vette vergognose, dove la lingua di colleghe e colleghi è molto più importante della penna. Il giornalismo del nostro Paese, purtroppo, non è più quello che dovrebbe essere, cioè il cane da guardia della democrazia, ma è diventato con eccezioni il cane da compagnia del potere». La faziosità partigiana, l’ossequio al potere, l’apriori ideologico – per cui leggo soltanto il giornale strettamente legato alla mia appartenenza politica – inquinano il dovere primario del cronista, ossia il racconto dei fatti, fuori da ogni altra considerazione. Per cui al potente di turno si pongono domande compiacenti, mai scomode, di rado volte alla ricerca di una verità che ne metta in discussione l’operato politico.

A questo problema, ai media che assecondano i poteri, se ne sovrappone un altro, l’atteggiamento del lettore, della società civile, dei cittadini. L’ospite del Cottini ricorda di aver scoperto, giovane, la vicenda di Giovanni Spampinato, giornalista de “L’Ora”, corrispondente da Ragusa, che aveva rivelato, agli inizi degli anni Settanta, come la sua provincia fosse tutt’altro che babba, ossia immune dalla presenza mafiosa, raccontando un territorio in cui la criminalità organizzata stringeva accordi con gruppi eversivi di estrema destra. In quelle zone, avevano trovato riparo, fra gli altri, Stefano Delle Chiaie, Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. Nell’ottobre del ’72, Spampinato fu assassinato. «Bene, ancora quando frequentavo le scuole mi dissero di Giovanni che in fondo “se l’è andata cercando, perché doveva scrivere di questi fatti”? Ed è un po’ quello che io mi sono sentito dire in tutti questi anni». Fa rima – precisa Borrometi – con quello che ha detto Rino Giacalone la scorsa settimana, ossia «abbassa i toni». Quando il capomafia Giambattista Ventura fu condannato – ora con sentenza definitiva – per l’inchiesta del cronista sui mercati ortofrutticoli, la figlia del boss scrisse sui social: «io non capisco perché tu non devi fare il giornalista come fanno tutti gli altri. E, tra i like sui social, ve n’erano di alcune colleghe e di alcuni colleghi. Questo, quindi, fa comprendere come appunto il giornalismo nel nostro Paese sia qualcosa di complesso».

Giornalisti non solerti, a dir poco, e cittadini che si «girano dall’altra parte», perché «peggio della mafia c’è soltanto l’atteggiamento paramafioso». Il problema è questo; come si dice ne “I cento passi” «a noi la mafia ci piace». E perché ci piace? «Perché quando non abbiamo lavoro – siccome il lavoro in questo Paese non è più un diritto, ma è diventato un favore – allora ci rivolgiamo al potente di turno e questo non è accettabile, questo il giornalista lo deve denunciare». La mafia va «strettamente a braccetto con la nostra disattenzione, come sostiene papa Francesco, con la nostra indifferenza». Per «sconfiggere le mafie noi cosa siamo disposti a sacrificare»? E, continua, argomentando con un caso noto questa complice indifferenza: se Matteo Messina Denaro viene arrestato in una cittadina di poche migliaia di anime e se almeno il 50% delle persone – a essere ottimista – sapeva chi fosse quell’uomo “latitante”, cosa bisogna dedurne?

Bisogno, calcolo, opportunismo spiegano le scelte, anche quella dell’indifferenza, in una realtà nazionale e locale dalla memoria corta. Nel 1980, in Sicilia hanno ucciso Piersanti Mattarella, «che aveva deciso di attuare la politica delle carte in regola», ucciso dalle mafie, «per la verità ucciso anche da qualche neofascista». E, negli anni Duemila, «i miei conterranei siciliani sono riusciti a eleggere un presidente di Regione che era già indagato per mafia. Si chiama Totò Cuffaro, poi condannato, appunto, per mafia. E quando chiedevo ai miei conterranei “Ma perché l’avete votato?”, loro dicevano “Perché ci aiuta, perché ci dà da mangiare, perché ci dà lavoro”. Allora capite che c’è un problema enorme»? Non possiamo commuoverci e basta nei riti di commemorazione, dimenticando che l’80% delle storie evocate il 21 marzo – giornata delle vittime di mafia – non ha ancora ottenuto giustizia, non possiamo praticare l’utile egoismo, aspettare l’eroe di turno, attendere le sentenze della magistratura affidandoci a quelle, dimenticando il nostro personale impegno.

E Borrometi cita Primo Levi, che diceva «Io odio gli indifferenti». Qui, a dimostrazione di come non voltarsi dall’altra parte possa contribuire a costruire una società meno ingiusta e soffocata da un clima di favori e prebende, di soprusi e violenze, evoca una sua inchiesta, della quale dice di andare orgoglioso, la stessa che dà il titolo al già citato volume “Un morto ogni tanto”. Nasce dalla scuola, quell’inchiesta, da un incontro con gli studenti di Pachino, nel Siracusano, da una studentessa, in particolare, che lo avvicina, gli chiede di aiutarla, perché il padre, produttore di pomodoro, non riusciva a venderlo al consorzio perché lì c’era il capomafia (Salvatore Giuliano, boss pachinese). Il giornalista effettua un’indagine, dalla visura camerale emerge che una delle aziende presenti nel Consorzio Igp di Pachino, “La Fenice s.r.l.”, è intestata al figlio di Giuliano al 50%, mentre l’altra metà è legata al figlio di Giuseppe Vizzini, altro mafioso. Nessun certificato antimafia prodotto da una società che, di fatto, deteneva il 40% di tutto il volume di affari del consorzio; alle altre ditte non rimaneva che spartirsi il restante 60%. Pubblicata l’inchiesta, passano 18 ore e “La Fenice” «viene buttata fuori dal consorzio, ma non per mafia, ci mancherebbe altro, ma perché scoprirono all’improvviso che da quando era iscritta non aveva mai pagato le quote associative; perché, vedete, buttarla fuori per mafia, sarebbe stata un’onta particolare». L’ospite del Cottini precisa che la ragazza, poi laureatasi, lo citò nei ringraziamenti della tesi, che il boss è stato condannato in primo e in secondo grado e che, intercettato, aveva programmato «che io dovevo saltare in aria. Io con la mia scorta, con una bomba che doveva essere posizionata a una mia uscita da un’altra scuola nel Siracusano. E il braccio destro del capo mafia obiettava “ma sarà troppo eclatante”! E il capo diceva “È vero, non sono più quei tempi, ma ogni tanto un morticeddu ci vuole”. Ci vuole perché serve a dare una calmata a tutti quelli che si stanno appunto ribellando».

Il caso del consorzio pachinese porta con sé un’altra vicenda legata al tema delle agromafie, all’importanza di un ambito che produce un giro d’affari doppio del bilancio statale italiano, in un triangolo che tocca Vittoria (RA), Fondi (LT) e Milano. Agromafia è quell’ambito in cui le mafie hanno definito un sodalizio, tra Cosa nostra, la “Stidda”, le camorre e la ‘ndrangheta, che Borrometi ha raccontato precisando che le prime si dividono gli affari locali della filiera ed entrano nei mercati di Fondi e di Giugliano, i Casalesi e altre bande camorristiche gestiscono l’interramento dei rifiuti e i trasporti e la ‘ndrangheta usa questa infinita carovana di camion per farvi viaggiare la cocaina, camuffata tra la frutta e la verdura. Durante il racconto non omette di precisare che, quanto allo smaltimento dei rifiuti, la camorra o, meglio, le camorre hanno inquinato il Sud dopo aver riempito il Nord Italia: «il Veneto è pieno di rifiuti interrati dalla camorra».

L’accenno al Nord porta con sé una domanda all’ospite sulla presenza mafiosa in Piemonte. Borrometi risponde che le mafie in Settentrione «non sono più infiltrate, come qualcuno dice, ma hanno colonizzato il Nord», ne hanno gradualmente inquinato l’economia legale e, a proposito, cita la lungimirante lucidità di Bruno Caccia, il magistrato ucciso a Torino nel 1983, che «aveva già capito cosa fossero le mafie al Nord, investimenti economici, rapporti grigi che per me sono neri e che in quel caso erano neri perché stabiliti con terroristi neri».

Giornalismo, società civile, mafie. Resta una domanda da porre all’ospite del Cottini. Chi sono i “traditori”, dott. Borrometi? A chi si riferisce nel volume che porta quel titolo, che racconta delle ombre del nostro Paese dallo sbarco alleato sino alla cattura di Matteo Messina Denaro? Il giornalista risponde: i traditori sono quelli che giurano falsamente sulla Costituzione, siamo noi che ci giriamo dall’altro lato, sono quei poteri esterni che hanno avuto bisogno dei mafiosi non per sbarcare in Sicilia, ma per rimanervi e governarla, gli angloamericani. Traditori sono quelli che hanno consentito al bandito Giuliano di dar vita a Portella della Ginestra – vicenda su cui c’è ancora il segreto di Stato e che è «emblematica di ciò che capiterà regolarmente nel nostro Paese – che hanno trattato con Pisciotta e poi lo hanno ucciso. Traditori quelli che fecero l’attentato di via dei Georgofili a Firenze, in cui l’esplosivo usato era solo in parte di matrice mafiosa, perché oggi si sa che circa 100 kg in più, rispetto le prime versioni, erano di esplosivo in dotazione all’esercito e ai servizi segreti militari.

Un episodio paradigmatico, spiega Borrometi, è quello legato a via Gradoli, Roma: il covo che servì, in un primo momento, alle Brigate rosse per nascondere Aldo Moro fu, in seguito, «abitato dai terroristi neri, Fioravanti e Mambro, poi vennero arrestati i terroristi neri e lo stesso appartamento fu abitato dai mafiosi della banda della Magliana, legatissimi ai mafiosi siciliani e calabresi. Ho trovato un documento unico che dimostra che quel covo aveva un regolare contratto d’affitto a nome di una società che aveva locazioni in carico ai servizi segreti militari italiani». Lo statista democristiano ucciso dalle Br serve, poi, a Borrometi per porre una domanda, che dà per scontata l’esistenza delle trattative e dei traditori: «qualcuno mi spiegherà perché abbiamo trattato con i peggiori mafiosi che avevano fatto saltare un intero pezzo di autostrada e non abbiamo trattato, ad esempio, per liberare Aldo Moro. È chiaro perché non abbiamo trattato? Perché Aldo Moro a quel punto era troppo sconveniente e non è un caso che l’allora segretario di Stato statunitense, Henry Kissinger, nell’ultimo viaggio di Aldo Moro negli Stati Uniti disse: “Presidente, lei la pagherà cara”. Guarda caso, poche settimane dopo venne rapito e 57 giorni dopo purtroppo ucciso». 57, come i giorni che separano Capaci da via d’Amelio.

La ragione di Stato «ha sempre qualcosa in più da giustificare. Possiamo anche ammettere che la ragione di Stato sia fondamentale, ma dobbiamo essere onesti e dircelo». Ciò per evitare di tornare al tempo del panem et circenses, cittadini rabboniti e ignoranti. Quella stessa ragione di Stato dietro la quale si trasforma l’uccisione dell’urologo Attilio Manca in un suicidio infamante. Quel geniale medico aveva operato alla prostata Bernardo Provenzano, non un boss a caso, era quello che aveva consentito l’arresto di Riina, e che doveva essere salvato: ma Manca era d’intralcio al segreto di Stato e andava sporcato con un finto suicidio. I tradimenti sono stati tanti, perché l’elenco del giornalista è lunghissimo.

Borrometi si presta, quindi, alle domande degli altri docenti, parla di ignavia dantesca e della possibilità di successo nel fronteggiare le mafie, della necessità di appellarsi alla non rassegnazione dei giovani, del bisogno dei cittadini di andare al di là delle sentenze dei magistrati, di formare un’opinione critica che superi il dualismo guelfi-ghibellini e il giornalismo «di parte» e acritico, un’opinione pubblica che costruisca una protesta pacifica contro le storture, chiede ai docenti di «fare qualcosa». Quindi, saluta gli interlocutori, lasciando l’impressione di un incontro ricco di spunti, rigoroso nel suo richiamo al nostro impegno quotidiano, capace di superare l’egoismo del profitto e di addentrarsi nella partecipazione attiva, meno disaffezionata alle disgrazie della comunità in cui si vive o tocca vivere.


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