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Brescia e la ‘ndrangheta: politici, affaristi, religiosi, cronaca breve di un sodalizio

Secondo una parabola ormai consolidata – almeno da un secolo e mezzo – la ‘ndrangheta, ovunque si muova, non si preoccupa soltanto di drenare risorse materiali, ma di creare relazioni utili per accrescere quelle stesse risorse, influenzando le scelte politiche locali

di francoplat - mercoledì 11 dicembre 2024 - 482 letture

Il capitale sociale ‘ndranghetista è il cavallo di Troia attraverso il quale gli uomini delle cosche si infiltrano nel tessuto sociale, economico, politico di un determinato territorio, esattamente come è accaduto a Brescia. È notizia di pochi giorni fa che, sulla base delle indagini iniziate nel settembre 2020 e coordinate dalla Dda bresciana, si è individuata una “locale” del clan Tripodi operativa nella zona e capace di creare addentellati importanti con figure eterogenee di quella provincia, dall’ex consigliere comunale in forza a FdI, Giovanni Acri, all’ex esponente della Lega a Castel Mella, Mauro Galeazzi, a una religiosa, suor Anna Donelli, accusata di concorso esterno per aver garantito il collegamento tra i boss ‘ndranghetisti e i membri detenuti in carcere, fungendo, in sostanza, da cerniera e sfruttando il ruolo di assistente spirituale negli istituti detentivi di Milano e di Brescia.

Tutti e tre sono finiti ai domiciliari. Accusato di scambio elettorale politico-mafioso, Galeazzi è un imprenditore sessantenne, risiede a Castel Mella, dove è stato consigliere comunale e assessore all’Urbanistica. I suoi rapporti con la famiglia Tripodi sarebbero iniziati nel 2020, a seguito di un prestito chiesto da Galeazzi alla cosca, per ragioni di liquidità. Prestito ottenuto – circa 25 mila euro con interessi che andavano dal 60 all’80% – e parzialmente rimborsato. Il rimanente avrebbe potuto essere restituito grazie all’eventuale elezione a sindaco del Galeazzi: è quest’ultimo a prospettare a Stefano Tripodi la sua intenzione di candidarsi a primo cittadino di Castel Mella e l’altro avrebbe generosamente risposto, come riporta un’intercettazione ambientale presso gli uffici di Flero della famiglia ‘ndranghetista: «cerca di fare il sindaco che ti aiutiamo […] perché a noi ci interessa […] tutti i calabresi della zona li facciamo votare a tutti. Glielo dico io se no, non ti votano».

Smargiassate e millanterie, stavolta, perché le elezioni portarono a Galeazzi solo 99 voti e neanche un seggio. Eppure, il giorno prima delle elezioni, Stefano Tripodi pareva convinto: aveva chiesto al politico leghista di fargli fare soldi con gli appalti e quello, riportano le intercettazioni, avrebbe risposto: «da vedere se ci sono degli appalti, sarebbe bello quello della Rsa». Al che, il boss, pragmatico e progettuale, lo aveva invitato a suggerire «l’apertura di una Rsa ad Acri». Ed ecco entrare in scena Giovanni Acri, medico, che Stefano Tripodi indicava a Galeazzi quale possibile interlocutore, «lui è calabrese, è dei nostri […] mangiate la stessa politica, ti presento io, questo ti farà conoscere, piano piano». Anche Acri è incolpato di concorso esterno, alla pari di suor Anna: avrebbe aiutato i membri del clan, in qualità di medico, anche «in occasione di ferimenti» e, in particolare, in un’occasione avrebbe ricucito un mafioso ferito durante una rapina a un portavalori; rapina, sia detto di sfuggita, commessa insieme a uno dei Tripodi, in quel momento latitante.

Una cosca ben inserita nel territorio, dunque, legata alla ‘ndrangheta di Sant’Eufemia di Aspromonte – in particolare alla clan Alvaro egemone nella zona tra Sinopoli e Sant’Eufemia – e volta alle estorsioni, al traffico di armi e droga, alle ricettazioni, all’usura, a reati tributari e al riciclaggio, e alla quale gli inquirenti hanno sequestrato circa due milioni di euro, dopo aver compiuto parecchie perquisizioni anche nelle province di Reggio Calabria, Milano, Como, Lecco, Varese, Verona, Viterbo e Treviso. Non meritano commenti le osservazioni del procuratore capo di Brescia, Francesco Prete, in merito a questa vicenda: «nel Bresciano c’è un radicamento mafioso viscido che rende difficile il nostro lavoro».

Parole che non possono stupire se, come sempre nei fatti di mafia, si guarda un attimo indietro, ci si volta, si raccolgono le tracce del passato e si verifica che il fenomeno è lontano, radicato da tempo. Su queste stesse pagine si era commentata la levata di scudi contro Marisa Laurito, rea di aver detto che la camorra più importante era al Nord, a Desenzano, ossia in provincia di Brescia. E, sempre su queste pagine, si era osservato, con le parole dell’allora procuratore aggiunto del capoluogo lombardo, Sandro Raimondi, che Brescia e le zone limitrofe, nel 2017 circa, erano diventate, anche grazie alle cosche mafiose, una nuova “terra dei fuochi”.

Dunque, nessuno stupore, nessuna eclatante novità. Neanche le accuse mosse a suor Anna Donelli, forse, possono colpire più di tanto, per quanto si tratti di una religiosa. Al di là dell’ovvia sospensione del giudizio sulla persona, in attesa di verifiche processuali, la torbida commistione fra mafie e religione, tra la materialità brutale dei crimini mafiosi e la presunta vocazione al bene della sfera spirituale, data anch’essa da decenni e decenni. Non si intende qui disconoscere le grandi trasformazioni avvenute in seno alla Chiesa cattolica relativamente alla riprovazione del fenomeno criminale in questione – oggetto di una disamina su questa rivista in un articolo di qualche anno fa –, ma sottolineare che la collaborazione con le mafie è una prassi diffusa a tutti i livelli della scala sociale, annidata in ogni segmento della società civile, ambienti religiosi inclusi. Si insiste su questo aspetto perché lo si ritiene fondamentale per la comprensione del tema mafioso, della sua longevità: avvocati, medici, ingegneri, architetti, camionisti, politici, proprietari terrieri, infermieri, giornalisti, poliziotti, nullatenenti e tanto tenenti, magistrati, impresari, chimici, veterinari, artigiani e via discorrendo, ognuno dal proprio personale laboratorio umano, ognuno con le proprie esigenze o ambizioni, stringono patti o sodalizi impliciti, e da questo calderone aggrovigliato non vanno esclusi i religiosi.

Secondo quanto riportano le fonti, sulla base delle intercettazioni, Tripodi e la religiosa, stando alle parole del primo, avrebbero avuto un “patto”. Alla suora viene imputato il concorso nell’attività associativa, è accusata di aver agito nelle carceri in favore di Stefano e Francesco Tripodi, trasmettendo «ordini, direttive, aiuti morali e materiali» ai detenuti della cosca o a essa contigui; inoltre, riceveva informazioni dai boss al fine di «meglio pianificare strategie criminali di reazione alle attività investigative delle forze dell’ordine», oltre che provare a risolvere dissidi e conflitti tra i detenuti. Un ruolo riconosciutole dagli stessi membri del clan: come afferma uno degli arrestati nel corso di un’intercettazione ambientale, la suora «è uno dei nostri […] se ti serve qualcosa dentro è dei nostri».

Magari suor Anna Donelli troverà il modo di sganciarsi dalle accuse. Non è la sua persona in discussione, anzi, per chi scrive il clamore mediatico destato dalla sua veste “spirituale” appare infondato. È il sistema Brescia il problema, la sua infinita replicabilità, il suo desolante contesto politico-mafioso-affaristico, il ritrovare il marchio di fabbrica della ‘ndrangheta così fedelmente riproposto nella provincia lombarda e accolto con gioiosa rassegnazione da una parte di quella comunità, un segmento importante che cerca e trova il supporto mafioso alle proprie personali necessità. Ancora una volta, rischiando lo sfinimento del lettore, vale la pena citare le osservazioni, datate 2018, della Commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi, parole da ripetere come un mantra sino a ulteriori cambiamenti epocali: «se la mafia oggi è più debole, la società però è più mafiosa di una volta».


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