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Mafia in Liguria: nulla di nuovo sul fronte di Ponente e di Levante

In principio era il Sud. E un certo Sud era presso le mafie e le mafie erano parte del Sud. Poi, un po’ per volta, le mafie hanno allargato il Verbo, raggiungendo il resto d’Italia, che ora parla un Verbo consimile, fraterno a quello delle regioni originarie

di francoplat - mercoledì 8 gennaio 2025 - 413 letture

Tra negazioni e pallide ammissioni, tra allarmi e proclami, le consorterie mafiose si sono radicate e integrate in Settentrione, impiegando anni e decenni, seguendo una prassi consolidata e oleata: le mafie si innestano in un territorio al Nord, qualche indagine ne rivela la presenza, gli amministratori locali, con poche eccezioni, si affrettano a negare l’esistenza delle cosche negli spazi indigeni, mentre, nei suoi rapporti semestrali, la Dia conferma che non si tratta di fuochi fatui, poi cala il silenzio. Mesi dopo o anni dopo, qualche altra investigazione attesta che si tratta di un fenomeno radicato, che il radicamento, forse, è decennale, gli amministratori continuano a negare, magari con tiepide ammissioni, i giornali parlano di allarme, di emergenza criminale organizzata di stampo mafioso. Ma l’emergenza, per sua natura, è un fatto contingente, occasionale, acuto e non cronico, come pare, invece, essere diventato l’affaire mafie.

In fisica, esiste un processo denominato sublimazione che molto ricorda la vicenda di Cosa nostra e sorelle in Italia, poiché presuppone un cambiamento di fase che consente alle sostanze di passare dallo stato solido allo stato aeriforme. È quanto avviene alle organizzazioni criminali nostrane, la cui vicenda pare rapidamente evaporare, sparire dai radar e dalle memorie; una vicenda eclatante ne ricorda la cristallizzata presenza, poi tutto svanisce e si grida all’allarme. Tra un allarme e l’altro, le mafie svaporano, ma solo agli occhi di chi non vuole, non può, non intende sapere. E così si procede da quasi due secoli.

Si guardi al caso Liguria. Pochi giorni fa, il referente regionale di Libera, Andrea Macario, ha definito il 2024 un annus horribilis per l’impegno antimafia. Problemi legati ai beni confiscati alle mafie, il caso dell’ex governatore Toti e la presenza mafiosa, la polemica tra il procuratore di Imperia, Alberto Lari, e il sindaco della città Claudio Scajola, che ha negato la presenza criminale nel territorio da lui amministrato, argomentando il proprio convincimento sulla base dell’inesistenza di denunce a riguardo. Ma il problema della presenza mafiosa nella regione è stato sollevato anche dal capo della Dia ligure, il colonnello Maurizio Panzironi, che, alcune settimane fa, ha precisato come le grandi organizzazioni criminali mafiose siano radicate nel territorio ligure, ognuna con un proprio ventaglio di illeciti: mentre Cosa nostra si concentrerebbe sulla logistica, la ‘ndrangheta sarebbe interessata al movimento terra e la camorra alla ristorazione.

Ma non è un allarme, non è un’emergenza, è una sorta di quotidianità alla quale ci si è assuefatti, anche grazie al tormentone della “mafia qui non esiste”. Era il 2009 quando il futuro ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri, all’epoca prefetto di Genova, dichiarava solennemente: «Emergenza mafia? Non ci risulta. Non abbiamo nessuna denuncia né dati che ci spingano a ipotizzare l’esistenza di infiltrazioni mafiose serie a Genova». Nessuna denuncia, nessuna mafia. Se non fosse tragica, la situazione farebbe ridere. Che poco ci fosse da ridere e che le mafie fossero ben presenti sul territorio ligure lo dimostrarono, pochi anni dopo, lo scioglimento dei comuni imperiesi di Bordighera (2011) e di Ventimiglia (2012). Un’interessante analisi della rivista “paginauno”, datata giugno 2012, prova a percorrere a ritroso le imprese mafiose, giungendo agli anni Settanta, quando il fenomeno aveva un carattere appena visibile, in una terra, la Liguria, ricca, con porti importanti, punto di collegamento tra Nord e Sud, un casinò di fama, una forte industria del turismo, legata – ricorda l’autore del servizio - «allo scempio della costruzione selvaggia di abitazioni e hotel».

Nel 2006, la relazione della Direzione nazionale antimafia confermava la presenza delle mafie nella regione, orientate, «più che a ottenere un diretto e immediato controllo del territorio, alla conquista di mercati e riferimenti logistico-strategici per la gestione dei traffici illeciti». A livello locale, nell’agosto 2010, il quotidiano “Terra”, scriveva: «se si fa caso soltanto alla geografia, Arenzano è un paesotto in provincia di Genova con incantevoli scorci sul mar Ligure. Ma se invece si considera il radicamento e il condizionamento sulla pubblica amministrazione che la ‘ndrangheta ha in questo posto, potrebbe venire il dubbio che Arenzano si trovi nella Locride o in qualsiasi altro territorio ad alta densità mafiosa».

Che le consorterie criminali avessero allargato la loro influenza ben al di là del piccolo paesotto dagli incantevoli scorci sul mare, lo dimostrarono altre inchieste, grazie alle quali risultò chiaro che in Liguria – siamo nel 2013 – «le principali forme mafiose italiane, in primis la ‘ndrangheta, hanno stretto rapporti con una parte della classe politica, a prescindere dallo schieramento partitico e in base alla utilità per la cosca. A differenza che in altre realtà del centro nord, dove questo rapporto è limitato o assente, in Liguria purtroppo il connubio tra mafia e politica è presente in maniera rilevante» (“mondo alla rovescia”, 23 agosto 2013). Indipendentemente o meno dal fatto che in altre regioni centro-settentrionali il rapporto delle mafie con la politica fosse meno stretto o del tutto assente – cosa della quale si dubita – resta il dato regionale piuttosto inequivocabile.

Non stupisce troppo, quindi, l’allarme lanciato cinque anni dopo da Rosy Bindi, all’epoca presidente della Commissione parlamentare antimafia. La mafia, sosteneva al tempo l’onorevole Pd parlando espressamente della regione ligure, «si è infiltrata in tutti i settori strategici che vanno dall’economia alle grandi opere, andando a toccare anche il mondo della politica e del calcio». Riferendosi alla ‘ndrangheta, la Bindi osservava che si trattava di «cosche locali organizzate nel Ponente e non solo. Si tratta di una presenza capace di condizionare attraverso un’evoluzione del metodo mafioso che prevede l’uso della violenza come ultima istanza, ma che si fonda su rapporti e complicità. Spesso sono i politici e gli imprenditori che si rivolgono direttamente alle organizzazioni».

Anche in Liguria, come altrove, si stava assistendo a un cambiamento di passo, a quel ribaltamento di ruoli e relazioni che vedono sempre più i politici e gli affaristi andare alla ricerca dei referenti mafiosi, anziché questi ultimi andare a bussare alle porte del ceto dirigente. Non solo di quello politico, ma anche di quello economico. È del luglio 2020 un articolo di “Imperiapost.it” il cui incipit non lascia spazio al dubbio: «la compenetrazione dell’imprenditoria mafiosa nell’economia legale locale dimostra come le mafie si siano trasformare, in Liguria, da “soggetto che si è infiltrato” a “soggetto che si è integrato” perfettamente nel sistema economico del territorio». Si faceva riferimento nuovamente a un’analisi della Dia, nella quale si evidenziava, inoltre, come le cosche calabresi avessero una spiccata capacità di entrare in contatto con la cosiddetta “area grigia” – imprenditori, professionisti, funzionari pubblici e amministratori locali - «che ha favorito l’acquisizione di un patrimonio relazionale indispensabile per realizzare i progetti criminosi». Attraverso pratiche collusive o corruttive, i clan acquisivano e acquisiscono indebitamente appalti, sub-appalti, forniture, licenze edilizie, concessioni demaniali e altri benefici.

A fronte di tutto ciò, ossia dell’evidente e irresistibile ascesa delle cosche in terra ligure, non può che suonare amaro il richiamo di Roberto Traverso, dirigente nazionale del Siap (sindacato italiano appartenenti Polizia di Stato), comparso su “La Stampa” nel 2018, ossia lo stesso anno in cui Rosy Bindi denunciava l’infiltrazione delle mafie in tutti i settori strategici di quella terra. «A Genova e in Liguria si parla sempre meno di mafia e i poliziotti che indagano sono sempre meno». E Traverso continuava: «non è possibile accettare silentemente la lenta ma inesorabile agonia di un apparato investigativo che negli ultimi 20 anni ha perso la presenza di personale investigativo su un territorio sempre più inquinato dalla mafia» (21 ottobre 2018).

Dunque? Dunque, la recentissima osservazione del responsabile regionale di Libera, annotata all’inizio di questo scritto sul sostanziale disimpegno sul fronte antimafia in Liguria, non desta sconcerto, ma solo amarezza. Perché è l’ennesimo grido nel deserto! Le mafie ci sono in Liguria, eccome; integrate e coordinate tra loro, spalmate sulla riviera, assestate nei posti strategici. Lo sanno tutti, eppure il personale investigativo decresce. Allora, non si può che pensare alla volontà di perpetuarlo questo fenomeno, che si continua a negare, non per ignoranza; non è più possibile l’ignoranza a fronte della mole di documenti che ne attestano la presenza capillare e pervasiva. Si nega per convenienza, per opportunismo, per complicità, a vari livelli sociali, a seconda dei diversi ruoli professionali. La sublimazione delle mafie, il loro frequente evaporare dalle agende politiche e dal sentire comune, è una strana alchimia, un processo inquietante e drammatico della storia nostrana, che dimostra, nel graduale allargamento della base di complicità e di consenso delle cosche, quanto lucida fosse l’osservazione dello scrittore calabrese Corrado Alvaro: «la disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile». La fatica dell’onestà si paga, soprattutto se assorbi nell’aria del tuo Paese la piccola virtù dell’egoismo accaparratore, cifra esistenziale che accomuna mafiens e sapiens.


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