Da Peppino Impastato alla mafia silenziosa ma onnipresente di oggi

"Le ultime trovate governative sui limiti alle intercettazioni, sulla cancellazione del reato di abuso d’ufficio e, per andare oltre, sulla divisione dei poteri in magistratura, non aiutano la lotta alla mafia..." - Intervista a Salvo Vitale.
Abbiamo posto alcune domande a Salvo Vitale [1], che fu amico di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso le scelte politiche e le iniziative, ne ha continuato l’attività dopo la tragica morte. Celebre è il discorso con il quale, da Radio Aut, ha annunciato la morte di Peppino Impastato, il 9 maggio 1978, ripreso anche nel film “I cento passi”.
Dal suo osservatorio, qual è oggi la situazione del fenomeno mafioso in Italia? Ci sono dei cambiamenti rispetto al passato, ci sono delle trasformazioni delle consorterie criminali?
Si trasforma la società e la mafia si adegua. Ormai Cosa Nostra preferisce non esibirsi, si è inabissata, si è divisa in una serie di rivoli, come nel delta di un fiume ed ha superato i confini nazionali, per proiettarsi in una dimensione cosmica. Credo che tutto il sistema di potere di cui fanno parte i singoli stati, sia caratterizzato da forti venature mafiose, a cominciare dall’uomo più potente del mondo, Trump, che è un mafioso a tutti gli effetti. I campi di accumulazione, con aspetti di criminalità coperti o protetti, sono sempre gli stessi in cui nuota la delinquenza più o meno mafiosa, ovvero traffici di armi, oggi in netta espansione, produzione e distribuzione di droghe vecchie e nuove, controllo della prostituzione, traffico di esseri umani, traffico di organi di esseri umani, estorsioni, controllo delle attività economiche nei loro molteplici settori, con particolare attenzione all’agroalimentare, al settore della telefonia mobile, a quello delle telecomunicazioni e degli strumenti di gestione dell’intelligenza artificiale. La politica altro non è che l’epifenomeno, il manifestarsi all’esterno (far capolino) di tutto il marciume di cui il capitalismo è capace, la facoltà, anzi la forza del far diventare legge e strumento di gestione delle attività produttive ciò che a prima lettura non dovrebbe essere consentito. I giochi in borsa, le azioni e obbligazioni, i prestiti ad usura, gli scambi di favore, la mazzetta per agevolare l’iter di una pratica, il surplus arbitrariamente imposto sul valore di una merce, i bitcoin, le agenzie di vigilanza privata, vedono ormai impegnati i migliori cervelli di Cosa Nostra, che hanno lasciato gli strumenti tradizionali di accumulazione e si sono impadroniti di tecniche, capacità di indirizzo o destinazione dei flussi monetari
A suo parere, qual è il pericolo maggiore rappresentato dalle mafie?
Il fatto che ci si abitui ad esse al punto da considerarle normali. E’ normale l’elezione di un sindaco o di un deputato discusso, è normale il costo di 200 euro per una visita medica, è normale che se vuoi la fattura devi pagare il 22 per cento in più di IVA, così come una volta era quasi normale che si potesse uccidere la sposa infedele. Una stretta conseguenza di ciò è la cancellazione di qualsiasi elemento di rispetto della dignità umana: l’altro non è considerato un tuo compagno di viaggio, un tuo simile, ma il diverso da te, che puoi “fottere” ove servisse ad aumentare la tua potenza, o che puoi umiliare se torna a tuo vantaggio.
Il fenomeno mafioso è sicuramente di lunga durata; pare assodato che la sua genesi si collochi nei decenni a cavallo dell’Unità italiana. Quali sono, secondo lei, le ragioni di questa longevità?
Senza dubbio il suo connubio con la politica, ovvero l’essere uno degli strumenti del potere, di cui il potere si serve, sia per il controllo sociale che per quello del settore economico. In questo contesto c’è chi preferisce indicare un binario in cui mafia e stato siano due parallele, o chi, come credo, pensa che la mafia sia un’escrescenza dello stesso potere.
E’ stato detto che quella delle mafie non è una storia criminale, ma una sostanziale storia del potere (Enzo Ciconte, Mafie del mio stivale). Lei condivide questa affermazione?
Non ho letto il libro del mio buon amico Enzo Ciconte, ma non posso che essere d’accordo con lui, come del resto si evince da quanto detto sopra. Qui in Sicilia, a partire da Mario Mineo, ad Umberto Santino, a Scarpinato e a numerosi altri storici e magistrati, è stato introdotto il termine di “borghesia mafiosa”, per indicare una componente del sistema di potere, non solo locale. Personalmente non assocerei l’aggettivo ad una sola classe sociale, la borghesia, anche se è quella che ha in mano la fetta più grossa del potere, ma agli altri strati, settori, personaggi che vanno dal proletariato più basso ai padroni della ricchezza. Il sistema è talmente intrecciato che è impossibile districarlo e, se ci si prova, è talmente liquido da rigenerarsi subito in forme affini.
Se, come si dice da parte di tanti analisti e studiosi del fenomeno, quella mafiosa è una realtà ben presente, consolidata e tutt’altro che sconfitta, perché si ha l’impressione di un sostanziale silenzio attorno alle consorterie criminali, tranne quando qualche fatto eclatante scuote un certo torpore mediatico (penso all’arresto di Matteo Messina Denaro)?
Non è una novità. Quella del silenzio, sia nel far parlare di sé, sia nel divieto di denunciare è una caratteristica fondamentale che garantisce la sopravvivenza della mafia. Si può pensare alla massoneria e al suo codice che accomuna gli affiliati. Ogni tanto si getta in pasto un osso, un singolo malandrino, con la precisa intenzione di chi gestisce i mezzi d’informazione, di far credere che la mafia è comune delinquenza e che è lo stato, comunque, a vincere sempre.
Qual è, oggi, la situazione del contrasto alle mafie sul piano politico?
Le ultime trovate governative sui limiti alle intercettazioni, sulla cancellazione del reato di abuso d’ufficio e, per andare oltre, sulla divisione dei poteri in magistratura, non aiutano la lotta alla mafia, ma anzi rischiano di ampliare gli spazi di potere e di tracotanza di cui la mafia dispone. Diciamo pure che non c’è voglia e che il potere non va contro se stesso o contro chi lo tiene in vita.
A suo giudizio, quali sono le maggiori criticità nella lotta alla criminalità mafiosa?
La mancanza di controlli sul territorio. Buona parte di coloro che dovrebbero controllare le identità e gli interessi di una comunità se ne stanno chiusi nei loro posti di lavoro, sommersi dalle scartoffie, mentre sotto i loro occhi si dipanano reati che, con un minimo d’indagine potrebbero essere combattuti. Un esempio, per capirci: com’è che sprovveduti giornalisti riescono a fare inchieste, individuare responsabili, scoperchiare scandali, mentre chi dovrebbe farlo non sa dove mettere le mani o non l’ha mai voluto fare? C’è in questo ancora un altro elemento: le misure dovrebbero essere riabilitative, non punitive. Quella della mancanza di personale più o meno qualificato è una peculiarità che interessa, oltre che le forze dell’ordine, tutto ciò che ancora rientra sotto la gestione statale, le scuole, gli uffici statali, dalle poste all’Agenzia delle Entrate, gli amministratori della giustizia fuori e dentro i tribunali, gli ospedali ecc.
L’abolizione della legge sulle misure di prevenzione, che ritengo anticostituzionale, o una sua revisione, nel senso che, in un anno dovrebbero essere portate a compimento le attività di indagine, di sequestro, di confisca o di rilascio, con il pagamento di tutta la gestione, compresa quella degli amministratori giudiziari, a carico dello stato. Il tema è legato al bavaglio che tali misure pongono alle attività economiche, impedendo il decollo dell’economia, in particolare quella siciliana, su cui ricade il maggior numero di sequestri e confische. Ove si voglia lasciare questa legge, estendere i sequestri e confische, anche ad altre attività coinvolte in truffe, evasioni, eversioni anche politiche. Mi sono sempre chiesto perché nessuno ha mai sequestrato e confiscato i beni di Berlusconi, sul quale il sospetto di concorso in associazione mafiosa è stato da sempre avanzato. Le casse del FUG si riempirebbero ben presto e i fondi potrebbero essere destinati per la gestione di tutto l’insieme.
La gestione dei beni confiscati, che dovrebbero essere resi operativi, e quindi destinati entro sei mesi, per evitarne il deterioramento e per evitare che la gente possa dire: quando c’era la mafia si lavorava, ora che c’è lo stato si è disoccupati.
Quali strumenti servirebbero, allora, per un più efficace contrasto alle cosche mafiose?
Ho già risposto nella precedente domanda ed avverto in tutto ciò amarezza e sfiducia. Non possiamo pretendere che il potere si processi o riveli tutti i suoi compromessi, compreso quello mafioso. Storicamente tra le pretese di fare la lotta alla mafia la più interessante è stata quella fascista che, dopo avere individuato e condannato alcuni mafiosi, ne dirottò alcuni in America, ad altri, più autorevoli, mise il fez in testa e li aggregò nel carrozzone. Michele Pantaleone è stato il primo, almeno ufficialmente a individuare questa capacità di metamorfosi e di adattamento della mafia alle varie realtà politiche, e quindi questo riciclarsi della mafia in garibaldina, savoiarda, liberale, fascista, democristiana, socialista, comunista (nelle regioni rosse) e, diremmo oggi, Berlusconiana o forzista, pentastellata, leghista e fratelliditalianista.
Dott. Vitale, cosa manca di Peppino Impastato all’antimafia di oggi?
Manca la capacità di fare controinformazione seria e di saperla diffondere, manca la sua forza di ribellione a ogni forma di prevaricazione, manca la sua incrollabile fiducia e certezza nella bontà del comunismo, come strumento di liberazione dell’uomo
E a lei, dott. Vitale, cosa manca del suo amico di un tempo?
Mi manca la sua risata irriverente contro ogni forma di potere e la sua incredibile capacità d’analisi degli eventi giornalieri.
Breve nota biografica sull’intervistato
Nato a Cinisi nel 1943, Salvo Vitale si è laureato in Filosofia all’Università di Palermo e ha insegnato Filosofia e Storia nei licei sino al 2003. Amico di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso le scelte politiche e le iniziative, ne ha continuato l’attività dopo la tragica morte. Celebre è il discorso con il quale, da Radio Aut, ha annunciato la morte di Peppino Impastato, il 9 maggio 1978, ripreso anche nel film “I cento passi”. Film, questo, la cui sceneggiatura si è ispirata al libro di Vitale “Nel cuore dei coralli” (Rubbettino, 1996), una biografia di Impastato, ripubblicata nel 2008 e aggiornata nel 2016 con il titolo “Peppino Impastato, una vita contro la mafia” (Rubbettino). Collabora con alcune testate giornalistiche – da “Antimafia Duemila” a “I Siciliani giovani” – si occupa di ricerche storiche, antropologiche e sociologiche, di educazione antimafia nelle scuole. Ha un sito personale, www.ilcompagno.it ed è redattore capo dell’emittente televisiva Telejato, dove segue le vicende dei beni confiscati alla mafia.
È stato fondatore e presidente dell’Associazione culturale “Peppino Impastato” di Cinisi.
[1] L’intervista a Salvo Vitale è stata formulata per iscritto; la risposta del mio interlocutore è arrivata il 14 aprile 2025.
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