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I souvenir della mafia: un brand inossidabile

Su queste stesse pagine, qualche anno fa, si era dato conto di un brand brasiliano di abbigliamento, distribuito pure nel nostro Paese da un’azienda della provincia di Parma, “Labellamafia”

di francoplat - mercoledì 27 novembre 2024 - 339 letture

In quell’occasione, si era osservato che la scelta di questa ditta era tutt’altro che originale, che aveva lontane radici nel tempo e che si collocava all’interno del fenomeno del “Mafia Sounding”, ossia la commercializzazione di prodotti attraverso il richiamo alla criminalità organizzata nostrana.

Un business piuttosto redditizio e diffuso, che spazia dalle Americhe all’Asia all’Africa del Nord, dalle slot machine ai gioielli, dagli studi di designer ai giochi da tavolo – Mafianopoly – e trova il suo momento di massima creatività nel campo della ristorazione, dal cannolo siciliano “Mafiakaker eller cannoli” offerto in Norvegia agli snack “Chilli Mafia” inglesi, dal caffè “Maffiozo” bulgaro al “Fernet Mafiosi” tedesco alle caramelle reperibili sul sito www.candymafia.com. Ciò per non parlare dei ristoranti o delle pizzerie che richiamano clienti al grido spagnolo di “La mafia se sienta a la mesa” (la mafia si siede a tavola) – poi costretti a eliminare la parola mafia dal Tribunale dell’Unione europea – o ai vari Mafia Restaurant in Giordania, Ucraina, Egitto, e, ancora, il ristorante “La Camorra” argentino o la catena di bar “Trivia Mafia” nel Minnesota.

Elenco parziale e incompleto, ma che fornisce un’indicazione piuttosto chiara dell’uso commerciale e piuttosto spregiudicato di un termine che si preferirebbe suonasse più sinistro, meno frizzante e lontano dal fornire qualsiasi fonte di guadagno. Invece, alla pari di altre scelte di marketing fondate sull’inossidabile slogan “pecunia non olet”, il “Mafia Sounding” non conosce battute d’arresto e, noncuranti di proteste e petizioni, ambulanti o negozianti continuano, con solerzia e faccia di bronzo, a reclamizzare e a vendere prodotti evocativi di quel dramma nazionale, e oggi planetario, che sono le consorterie criminali.

In questi giorni, il tema è tornato a palesarsi in virtù di una richiesta dell’ex parlamentare e responsabile del gruppo Palermo centro del M5S, Aldo Penna, al sindaco del capoluogo siciliano, Roberto Lagalla. Un appello che recita “basta vendere souvenir che inneggiano alla mafia” e che invita il primo cittadino palermitano a bloccare ogni «esibizione di complicità”, vietando la vendita di oggetti così simbolicamente offensivi del sangue che è scorso in quella città per mano di Cosa nostra. Una richiesta che cerca di spronare Lagalla a porre il veto a questa commercializzazione di icone mafiose attraverso il richiamo a una scelta del sindaco di Agrigento, Francesco Miccichè, che la scorsa estate aveva emanato un’ordinanza di divieto di vendita di souvenir e gadget esplicitamente evocativi della criminalità organizzata, «calamite e pupazzetti del padrino o di uomini con la coppola in testa o con un cartello fra le mani riportante la scritta ‘U mafiusu’» (“Palermo Today”, 23 novembre 2024).

Pure in questo caso, l’appello del pentastellato Penna non cade su un terreno vergine. Da anni, circola l’hashish “Totò Riina”, al quale si appaiano – idea partorita dalla figlia e dal genero del criminale a capo di Cosa nostra per decenni – il caffè e l’olio con il marchio “Zu Totò”. A Taormina, nel locale “Roberto il mago dei cannoli”, non era raro trovare tra le varie prelibatezze i dolcetti “Mafiosi al pistacchio” e “Cosa nostra alla mandorla”; ciò almeno sino a quando alcuni studenti palermitani non hanno spinto l’allora sindaco, Mario Bolognari, a rampognare il proprietario del locale. Poco più di un anno fa, anche a seguito della denuncia attraverso un video del cantante Mario Incudine, l’assessore alle infrastrutture e alla mobilità della Regione Sicilia, Alessandro Aricò, aveva vietato la vendita di souvenir legati alla mafia sui traghetti che collegano Messina e Villa San Giovanni.

È noto che le vicende mafiose, e ciò che le contorna, vivono in una sorta di atteggiamento ondivago, compaiono e ricompaiono dopo essersi inabissate. Per cui, dopo qualche anno di silenzio, agli occhi di Aldo Penna si presenta una situazione che, sul proprio canale Instagram, egli presenta in questo modo: «a Palermo, infatti, il fenomeno è dilagante. Le strade in cui è più facile imbattersi in bancarelle e vetrine con questi souvenir esposti sono ovviamente quelle più frequentate dai turisti. Lo abbiamo verificato facendo un giro nel centro storico. Come è possibile vedere dalle foto, questo tipo di gadget sono in commercio soprattutto in via Maqueda e in corso Vittorio Emanuele nei pressi dei Quattro Canti. Qualcosa si trova anche in via Roma e nella zona della stazione centrale. I negozi sono gestiti sia da stranieri che da italiani».

Da qui, la richiesta al sindaco affinché ponga fine al mercimonio di oggetti che ledono la dignità siciliana, offendono i parenti delle vittime, ritraggono in modo grottesco l’isola e i suoi valori. Iniziativa condivisibile, a cui applaudire in modo convinto, che apre un discorso più generale sull’uso commerciale di modelli improntati alla violenza e alla determinazione priva di limiti. Tanto per uscire dal tema mafioso, vale la pena ricordare che, anni fa, nella Penisola era possibile incontrare toraci più o meno sodi che calzavano delle magliette su cui troneggiava il volto sorridente di Felice Maniero, sotto il quale riposava placida la scritta “Fasso rapine”. Né è del tutto incoerente con il discorso generale qui approntato l’evocazione di un’azienda milanese il cui marchio per l’abbigliamento e gli accessori richiamava Joaquín Guzmán Loera, detto El Chapo, fondatore del cartello di Sinaloa in Messico. Perché El Chapo?, ci si potrebbe domandare. La risposta era fornita dalla stessa ditta: «è sinonimo di carattere risoluto, di scelte da leader e di stile da vendere».

Business, ma non solo. Chissà quanta inconfessabile seduzione esiste in alcuni di noi nell’immagine forte e violenta, vincente e persistente delle mafie, dei suoi orrendi leader, delle sue trame. Chissà quanta forza evocano, nelle vite mediocri di alcuni di noi, quei vigliacchi capo bastone che millantano potere e simboli di una ricchezza presa a qualsiasi costo. Chissà se davvero una parte della popolazione italiana rifiuta quel mondo, ne rifiuta i presupposti, i metodi e i fini, e non si senta piuttosto rappresentata, nei suoi sogni nascosti, da quelle figure che ostentano la partecipazione al bottino ricco di una società che ha bisogno di caratteri risoluti e scelte da leader. Forse, la storia delle mafie ha bisogno di un’analisi attenta e dettagliata del suo potere seduttivo, della sua mitologica presa dei poteri, del suo richiamo sottile alle corde più basse del nostro complesso animo, che disdegna quei simboli e, al contempo, li carezza silente. Non si spiega altrimenti il consenso che i gruppi criminali mafiosi continuano a trovare a vari livelli della scala sociale, dai ceti meno abbienti che cercano un supporto a una vita disagiata ai ceti più ricchi che cercano un appoggio a una vita da rendere più luminosa ai ceti dirigenti che bramano consensi e stabilità politica. Nei souvenir, e più in generale nel “Mafia Sounding”, c’è qualcosa di più che una transazione economica; a giudizio di chi scrive, c’è la malìa sottile del culto del più forte, destinata a crescere in tempi in cui parlano ovunque le bombe e le solenni dichiarazioni di guerra. Tempi grami per chi ritiene la violenza mafiosa – e la violenza in generale – un disvalore.


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