Corso sulle mafie per docenti del Piemonte al liceo artistico torinese “Renato Cottini”

Rituale come il Natale, a partire dal prossimo febbraio prende il via il quarto corso sulle mafie e sui loro dintorni al liceo artistico torinese “Renato Cottini”
Durante le tre precedenti edizioni, davanti ai docenti – di ogni ordine e grado della regione Piemonte – si sono alternati interlocutori il cui angolo visuale, derivante dalle diverse competenze professionali, ha consentito un’esplorazione piuttosto ampia del fenomeno mafioso. Docenti universitari (Rocco Sciarrone, Alberto Vannucci, Enzo Ciconte, Umberto Mosca, Marco Omizzolo), magistrati (Roberto Sparagna, Mario Andrigo), giornalisti (Stefania Limiti, Lorenzo Baldo), avvocati (Fabio Repici), esperti del settore quali il criminologo Ciro Troiano, coniatore del termine zoomafia, o un’attivista di Legambiente Piemonte e Valle d’Aosta (Federica Sisti), si sono succeduti, in presenza o in streaming, per spiegare ai partecipanti al corso la loro personale idea di mafia.
Un’idea di mafia che, al di là dei rilevanti distinguo tra un ospite e l’altro, aveva e ha un collante comune, esplicitato dal titolo del corso: “Mafie e dintorni. Il fenomeno delle mafie in Italia e i loro rapporti con lo Stato e la società civile”. Un titolo che definisce la prospettiva dalla quale parte il liceo torinese – in accordo con la sezione locale delle “Agende rosse” – per declinare il tema mafioso, ossia il bisogno di analizzare, accanto alla pervasiva forza delle cosche criminali, quei “dintorni” che vanno intesi come spazi di convivenza e aperta correità da parte di chi, pur non essendo mafioso, stabilisce con la criminalità dei rapporti di reciproca convenienza, per opportunismo, indifferenza, apatia, paura, ignoranza. A partire dal torbido e secolare intreccio tra ceto politico italiano e cosche.
Nel corso dei tre anni precedenti, larga parte dei relatori ha evidenziato quanto la presenza delle zone grigie, dei supporti politici, economici, sociali abbiano reso un grande favore ai boss, consentendo loro di consolidare ed espandere i rispettivi poteri ben al di là delle terre di insediamento originario di Cosa nostra e C. Dal prof. Ciconte, che ha sottolineato come un certo silenzio della Chiesa sia stato proficuo per il consenso attorno alla ‘ndrangheta, al sostituto procuratore Roberto Sparagna, giudice al processo “Minotauro” in terra sabauda, che ha rilevato tanto la sorpresa dinanzi alla ramificazione ‘ndranghetista in Piemonte quanto il duttile do ut des tra cosche e società civile, all’avvocato Repici, il cui intervento ha sintetizzato i depistaggi più o meno noti che hanno contraddistinto alcune delle pagine più buie della nostra storia nazionale, gli ospiti del Cottini hanno raccontato la vicenda mafiosa incastonandola in una più ampia prospettiva analitica, non disancorandola dai gangli della vita italiana nelle sue variegate sfaccettature, concretizzando, di volta in volta, quanto lo stesso Ciconte ebbe a scrivere in un suo volume del 2017 (“Mafie del mio stivale”): «se c’è una lezione che occorre trarre dalla lunga storia delle mafie italiane è che essa non è soltanto una storia criminale, ma una sostanziale storia del potere».
È questa storia raccolta presso l’aula magna del liceo Cottini che ha portato lo scrivente a osservare, su queste stesse pagine, come sia crescente l’osmosi tra una certa prassi e una certa mentalità mafiosa e una parte, minoritaria ma non esigua, della società civile, quella sorta di confronto tra mafiens e sapiens che apre una silenziosa guerra civile tra portatori di interessi privati drenati con ogni mezzo e chi cerca ancora di credere in una comunità organizzata intorno ai valori di una certa solidarietà e di un ricorso al soddisfacimento dei bisogni e dei desideri non viziato da forzature violente e predatorie.
Tra gli ospiti delle edizioni precedenti, come si è detto sopra, vi è stato Lorenzo Baldo, vice-direttore di “Antimafia Duemila”, relatore fra i più convincenti, per il tono pacato e fermo e per la forza di un discorso tutt’altro che retorico incentrato sul tema del giornalismo d’inchiesta silenziato dal fuoco mafioso; fuoco mafioso, non di rado, stimolato o indirizzato dai dintorni. Proprio l’intervento di Baldo, è stato il volano per pensare alla presente edizione del corso per insegnanti. Gli organizzatori, infatti, hanno ritenuto di variare, quest’anno, i caratteri dell’iniziativa e, anziché offrire un ventaglio di relatori differenti per professionalità e competenze dirette della criminalità organizzata di stampo mafioso, hanno ritenuto potesse essere interessante invitare tre ospiti accomunati dalla medesima esperienza lavorativa, ossia il giornalismo. L’idea di fondo è quella di porre dinanzi agli iscritti al corso dei relatori che possano trattare il tema, piuttosto spinoso, dei rapporti tra le voci mediatiche e il fenomeno delle mafie o, per meglio dire, provare a spiegare come quest’ultimo sia stato e sia trattato – o non trattato – dalla stampa locale e nazionale.
Non si tratta, quindi, di parlare, come ha già fatto il vice-direttore di “Antimafia Duemila”, dei giornalisti caduti perché troppo coraggiosi o troppo curiosi e, comunque, scomodi per chi doveva occultare gli affari che quei cronisti stavano mettendo in luce, quanto piuttosto di affrontare la questione di un certo, imbarazzante, silenzio della stampa sulle cosche e sui loro interlocutori esterni. Che si tratti di un problema nazionale, che il problema abbia radici lontane, lo disse lo stesso Baldo due anni fa. Accanto alla verità giornalistica strozzata dalla violenza intimidatoria delle mafie, vi è la verità truccata, deformata o, ancora, la verità burocratica e priva di mordente, il “copia e incolla”, come lo definisce il giornalista marchigiano, ossia l’antitesi di quello slancio di ricerca a cui faceva riferimento il compianto Pippo Fava in un famoso articolo dal titolo “Lo spirito di un giornale” (ottobre 1981). In un gioco reticolare di rimpalli, la notizia zampilla da una testata all’altra e dietro non si scorge più la mano del singolo giornalista d’indagine, ma un’asettica ripetizione di concetti. Non di rado, epidermici.
Non va dimenticato che lo stato di salute della stampa nazionale è precario: se si fa affidamento alla lista compilata da Reporter sans frontières, ossia il World Press Freedom Index – l’indice della libertà di stampa a livello mondiale –, si rileva che, nel 2024, l’Italia occupava il 46° posto, testimonianza di un Paese in cui il “quarto potere” trova ostacoli nell’adempimento delle proprie finalità, a partire da quella canonica e tradizionale, ossia il watchdog journalism, l’idea della stampa quale cane da guardia del potere, secondo un concetto anglosassone. Cane che, da guardia, qualcuno ritiene sia diventato da riporto; ovviamente al potere.
Con questo tema, tutt’altro che semplice, sono chiamati a confrontarsi gli ospiti del Cottini, a partire da Rino Giacalone, collaboratore de “La Stampa”, presente al liceo giovedì 13 febbraio, dalle ore 16 alle ore 18, con un intervento dal titolo esplicativo: “Il racconto della mafia del Trapanese: la lunga continuità della sottovalutazione sociale del fenomeno”. Ad arricchire e integrare le considerazioni del giornalista trapanese, ci penserà Paolo Borrometi, condirettore AGI, costretto da anni a vivere sotto scorta per le minacce subite e un’aggressione che gli ha provocato una menomazione alla spalla. Da Roma, dove lavora, lo scrittore e giornalista ragusano parlerà in streaming ai docenti, venerdì 21 febbraio (dalle ore 16 alle ore 18), preceduto da un intervento il cui titolo è il seguente: “Mafie e giornalismo, un rapporto controverso”. A chiudere la terna di ospiti, sarà un altro cronista siciliano, messinese nello specifico, ossia Nuccio Anselmo, redattore de “La Gazzetta del Sud”, quasi sicuramente in presenza, venerdì 21 marzo, ancora in orario pomeridiano. “Messina e la mafia tra sottovalutazioni e collusioni” è quanto si promette di raccontare ai partecipanti al corso, unendo la propria alla voce degli altri relatori, in un percorso di approfondimento tematico che si preannuncia carico di suggestioni e orientato, fin dai titoli, a ribadire un problema rilevante: la tiepidezza con la quale la vicenda mafiosa, con i suoi addentellati, giunge all’opinione pubblica.
Sarà interessante capire, dalla viva voce degli ospiti del Cottini, le ragioni e le conseguenze di tale tiepidezza. Senza azzardare ipotesi che snaturino i contenuti dei diversi interventi – dei quali si darà conto, di volta in volta, su questa rivista –, non è difficile ipotizzare che le prime, cioè le cause, saranno incardinate, tra le altre cose, anche sulla disaffezione nei confronti del tema; disaffezione che non riguarda solo l’ambito giornalistico (si pensi, in tal senso, allo scarso appeal delle mafie presso le nostre università) e che, di fatto, giova agli interessi dei boss e dei loro sodali. Pare ancora che le mafie rappresentino, pure agli occhi dell’opinione pubblica più strutturata e colta – un argomento esotico, marginale, un epifenomeno da espungere dal quadro dell’analisi di questo Paese. Quanto alle conseguenze, è chiaro che tra le più rilevanti c’è l’erosione del tessuto democratico, nella misura in cui il silenzio sulle mafie finisce per essere metabolizzato come la fine delle mafie e, per conseguenza, per incentivare, insieme, l’ignoranza del fenomeno e la persistenza dello stesso. E non c’è dubbio che il loro consolidamento vada di pari passo con lo sfilacciamento della nostra già fragile democrazia.
A proposito di democrazia e di Cottini, ci si permette un’ultima nota a margine. Ad aprile, grazie alla generosa mediazione delle Agende rosse locali, ospite del liceo sarà Michele Riccio, generale ora in pensione dei Carabinieri, autore di un libro – “La strategia parallela” – scritto con Anna Vinci, nel quale racconta, appunto, quella strategia parallela dello Stato che ha inquinato la nostra democrazia, a partire dall’omicidio del boss Luigi Ilardo, confidente dell’allora colonnello e che aveva messo a nudo gli intrecci indicibili di alcuni settori delle istituzioni con le mafie. Riccio parlerà agli studenti, stavolta, ai quali giungerà un messaggio probabilmente attenuato, ma quantomeno problematico circa la natura complessa dello Stato in cui vivono e che, non senza forzature, cerca in ogni modo di accreditare l’immagine di sé stesso quale organismo votato al servizio dei cittadini ed esente da brutture e da drammatiche deviazioni antidemocratiche.
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