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Trapani e il bisturi del potere: Rino Giacalone al liceo Cottini di Torino

"Noi raccontiamo un territorio in cui continuamente sono emersi ed emergono episodi di collusione, di connivenza, tra soggetti della società civile e soggetti e uomini di Cosa nostra"

di francoplat - mercoledì 19 febbraio 2025 - 707 letture

Quando termina il suo intervento, all’intendimento dei suoi ascoltatori resta nitida nel dettaglio e, al contempo, torbida nell’insieme l’immagine di Trapani. Lui è Rino Giacalone, giornalista de “La Stampa” – dopo aver lavorato per “Il Fatto Quotidiano” e altre testate – nonché portavoce di “Articolo 21” per il presidio regionale siciliano; gli uditori sono i docenti presenti nell’aula magna del liceo artistico torinese “Renato Cottini” per il primo incontro della nuova edizione del corso “Mafie e dintorni”.

Relatore lucido e appassionato, Giacalone racconta Trapani, la sua città e, narrandone, costruisce uno spaccato esemplare del caso Italia visto dalla periferia dell’impero, con le sue contraddizioni, le sue ambiguità, i suoi malaffari, i suoi inciuci, le sue puzzolenti commistioni di potere. Lo fa con un ventaglio di toni proprio di chi guarda dall’interno un fenomeno, nei confronti dei quali l’occhio lucido e l’orecchio attento del cronista si combinano con l’animo civico di un uomo turbato, indignato, amareggiato e, insieme, reattivo davanti a una vicenda lunga che ha sporcato e avvilito la nostra democrazia. Una nota corre lungo tutti i toni del relatore, quella del senso di responsabilità e del coraggio davanti a una storia di potere violento che non ama il coraggio, che non ama chi «non abbassa i toni». Così, racconta Giacalone, ancora a distanza di anni gli viene consigliato da qualcuno; quell’abbassare i toni che «è una cosa che mi insegue, che fa parte del mio impegno quotidiano, perché la stessa frase ce la siamo sentita dire in tanti, noi che facciamo questo mestiere».

Giovedì pomeriggio, i toni Giacalone non li ha abbassati affatto. Il suo resoconto della realtà trapanese è stato puntellato da nomi, fatti, avvenimenti, date, che hanno reso, innanzitutto, giustizia a quanti si ostinano – forse scioccamente – a pensare che la mafia esista e che goda di salute non precaria, soprattutto per una realtà che dura da pressocché due secoli. Il richiamo cronologico è dello stesso Giacalone, la cui relazione parte dal passato, un passato lontano, preunitario. Fa parlare il procuratore generale del Re a Trapani, Pietro Callà Ulloa, attraverso una missiva che il funzionario scrisse al ministro della Giustizia a Napoli. Siamo in età borbonica, il procuratore trapanese racconta, il 3 agosto 1838, che «vi ha in molti paesi delle unioni o fratellanze, specie di sette, che dicono partiti, senza colore o scopo politico […] senza altro legame che quella della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete […]. Sono tante specie di Governi nel Governo. La mancanza della forza pubblica ha fatto moltiplicare il numero dei reati! Il popolo è venuto a tacita convenzione coi rei».

Una fotografia lontana che, a detta del relatore, possiamo comprendere perfettamente nel 2025, tanto a Trapani quanto a Torino o a Milano. Ma Calà Ulloa parla dalla periferia d’Italia, da Trapani, terra di «crocevia, di intrecci, di inciuci», di storie dimenticate, eppure di grande rilevanza. Ci porta dentro un cortile, Giacalone, uno spazio interno a Castelvetrano, per terra, morto, c’è Salvatore Giuliano, morto, come si disse in una prima versione, per mano degli agenti dell’ispettorato di polizia; poi, ci pensò un giornalista de “L’Europeo”, Tommaso Besozzi, a smontare la messinscena, a rilevare che quel corpo morto era morto altrove (“Di sicuro c’è solo ch’è morto”, era il titolo dell’articolo). Besozzi evocò una trattativa del braccio destro di Giuliano, Pisciotta, con lo Stato agli albori della Repubblica.

Noi oggi raccontiamo, precisa Giacalone, «che c’è stata una trattiva nel 1994, quando le trattative nel nostro paese non bastano due mani per contarle». E quella di Pisciotta è tra le prime, non a caso a Castelvetrano, in provincia di Trapani, dove sono vissuti i mafiosi più pericolosi e non tanto per le vanterie di Matteo Messina Denaro circa i cimiteri che avrebbe riempito con le persone da lui uccise, quanto perché suo padre, Francesco, aveva inciso in profondità nel territorio, aveva inciso così profondamente da meritare l’epiteto di “padrino con il bisturi”, per aver modellato la mentalità, i comportamenti di quelle zone. Senza esplicitare il nesso tra i fatti e l’assunto generale, Giacalone evoca due attentati nella zona, coevi all’inizio della sua carriera giornalistica. Quello, nel gennaio 1983, del magistrato Giangiacomo Ciaccio Montalto e quello di Pizzolungo, due anni dopo, contro il successore di questi, Carlo Palermo, e costato la vita a una famiglia innocente, Barbara Rizzo e i suoi due figli, i gemelli Giuseppe e Salvatore Asta. Del primo ricorda il corpo di Ciaccio Montalto riverso sull’auto tutta la notte, nonostante i colpi fossero sicuramente stati uditi dalle abitazioni vicine, sino a che le forze dell’ordine non furono allertate il mattino successivo. Del secondo, sottolinea la posizione delle istituzioni, nello specifico quella del sindaco di Trapani dell’epoca (Erasmo Garuccio, DC), che disse a Enzo Biagi su Rai1 che l’attentato non era imputabile a mani mafiose perché «a Trapani la mafia non esiste». Atroce e stantia battuta che ispirò una nota vignetta di Forattini, con “Erasmo da Trapani”, che sentenzia l’inesistenza di Cosa nostra con i pantaloni calati e la lupara infilata nell’ano.

La società civile muta e le istituzioni negazioniste; ecco, l’incidenza sul territorio. Ma l’ospite del Cottini non si limita a cristallizzare un ricordo, perché quel negazionismo non è affatto cessato. «Siamo passati dal dire la mafia non esiste – e lo dicevano il professore, il politico, l’imprenditore – a oggi, all’indomani dell’arresto di Matteo Messina Denaro, a dire che la mafia è stata sconfitta». Qual è il comune denominatore? chiede agli insegnanti; che la mafia non c’è mai stata, risponde. «Ma le cose non stanno in questo modo; noi raccontiamo un territorio in cui continuamente sono emersi ed emergono episodi di collusione, di connivenza, tra soggetti della società civile e soggetti e uomini di Cosa nostra».

Il negazionismo non regge sotto i colpi di Giacalone, che porta altri fatti e altri nomi. In tema di risorse e di opportunità per la città, evoca il 2005, quando a Trapani si fecero le gare preliminari della Coppa America e si rifece il porto. A gestire gli appalti, osserva, «furono i soliti noti» e a controllare la gestione degli appalti sulla carta avrebbe dovuto essere la prefettura; ma solo sulla carta. A fare un sopralluogo al porto, sarà un ministro, non uno a caso, ma Pietro Lunardi, proprio quello che aveva osservato che con le mafie bisognava convivere. Già, e all’incontro ufficiale, accanto alle istituzioni e a una figura rilevante per la città – Antonio D’Alì – c’era pure il capomafia, la cui impresa, impegnata nei lavori, non compariva nei cartelli tra quelle dedite al rifacimento del porto. Ecco realizzata l’idea della convivenza con la mafia, chiosa il relatore, «perché questo è il tessuto della città di Trapani, una connivenza tra gli uomini di Cosa nostra i politici e gli imprenditori».

Un amalgama che si chiama, fra le altre cose, massoneria. Non massoneria deviata – sottolinea con enfasi -, non dite servizi segreti deviati; non sono deviati. «Sono strutture demandate a operare in un certo modo, senza nessuna deviazione […] C’è una parte dello Stato che con le mafie, con Cosa nostra, ci ha fatto affari e accordi, né più né meno». È la massoneria ufficiale quella in cui si stringono accordi, quella massoneria che in provincia di Trapani, stante il conteggio della Commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi, vanta 40 e più circoli, «un esercito di amanti della filosofia e del pensiero massonico». Logge o circoli culturali, magari come il circolo “Lo scontrino”, dentro il quale un brillante poliziotto, Saverio Montalbano, fece irruzione, avvertito da una telefonata anonima che, in quella sede, sarebbe stato definito il comandante dei vigili urbani. Montalbano fu, poi, trasferito, perché, a Trapani, il bravo ispettore o viene trasferito, o viene promosso o tentano di ammazzarlo o lo ammazzano. Così capitò a Ninni Cassarà, capo della Squadra mobile di Trapani, prima di andare a Palermo o, meglio, di esservi mandato. Cassarà, prima del trasferimento, fece un controllo in un circolo noto, quello dei nobili, censendo nomi che, vent’anni dopo, sarebbero stati presentati alla Procura antimafia palermitana e che testimoniavano le relazioni torbide trapanesi.

Trapani è un territorio che, da un lato, «sembra andare avanti come una Ferrari, dall’altra parte, invece, si scopre che è una 500 malridotta». La sanità, ad esempio, che consente a Matteo Messina Denaro di fare in cinque giorni ciò che un malato oncologico non fa in mesi, o il problema idrico, la siccità perenne in Sicilia, «e poi tu vedi in giro per le città le autobotti che vendono l’acqua. […] Ma l’acqua c’è o non c’è?»; e, ancora, le dighe, quelle esistenti nella regione, – circa una decina – non sono mai state collaudate. Senza parlare dell’abusivismo edilizio, suo recente filone di ricerca, per cui scopre che «in una parte della città è stato costruito un intero quartiere abusivo» e l’abusivismo diventa speculazione edilizia nel momento in cui i mutui sono accesi presso i proprietari terrieri che gestiscono le banche.

E non c’è acqua, ma c’era Gladio, già, c’erano polveriere di Gladio create in provincia di Trapani; esistevano cinque cellule di quella struttura militare, quella cittadina si chiamava “Centro Scorpione”. «Ma Gladio non era nata per fronteggiare il pericolo comunista?», si domanda Giacalone, ironizzando poi sull’avanzata dei “rossi”, entranti in Italia vittoriosamente, dopo aver travolto ogni cosa, e affrontati dal fronte trapanese pronto a resistere. Trapani crocevia, spazio in cui Giuseppe Peri, capo della squadra mobile cittadina, scoprì nel 1977 che esisteva un’organizzazione mista di destra neofascista, mafia, massoneria, oltre che attività in un campo di addestramento paramilitare presso la città dove comparivano gli stragisti Pier Luigi Concutelli e Stefano Delle Chiaie. Peri fu, poi, trasferito a Palermo, dove morì d’infarto nel suo ufficio, ricavato da un sottoscala della Questura. Sarà un caso, si domanda ancora e domanda il relatore, se l’esplosivo utilizzato per l’attentato al giudice Palermo è lo stesso utilizzato nel dicembre 1984 per l’attentato al Rapido 904 o di quello sistemato presso l’Addaura o di quello usato per la strage di via D’Amelio e in quelle del 1993? Contiene il semtex, quell’esplosivo, miscela di esclusivo uso militare. Episodi di mafia, sicuramente, «ma noi dobbiamo mettere accanto alla parola mafia un’altra parolina». Ecco, la nostra democrazia a parole, violentata nei fatti.

Trapani è anche la famiglia D’Alì; in particolare, nel tratteggio di Giacalone, Antonio D’Alì, senatore di Forza Italia nel 1994 e, qualche anno dopo, sottosegretario agli Interni nel governo Berlusconi. Figura interessante, sia che si guardi l’esito del suo percorso – è nel carcere milanese di Opera per concorso esterno in associazione mafiosa – sia che si guardi all’inizio di quel percorso, quale datore di lavoro di Francesco e Matteo Messina Denaro, lui, che aveva l’ufficio ministeriale a trecento metri da quello del servizio centrale operativo per la lotta alle mafie. Lo stesso D’Alì mandò via da Trapani – torna il siluramento mirato – perché troppo impegnato nel progetto di riassegnazione dei beni confiscati, il prefetto Fulvio Sodano, che raccontò allo stesso Giacalone che le ragioni profonde del suo allontanamento erano dovute a una riunione, alla quale presenziò anche Libera di don Ciotti, dedicata proprio alla corretta assegnazione dei beni mafiosi da destinarsi ad uso sociale.

Trapani è questo, connivenze, complicità, silenzi secolari, siluramenti, ma anche depistaggi. È il caso, caro all’ospite del Cottini, di Mauro Rostagno; caso che anche i lavori giornalistici di Giacalone hanno contribuito a tenere aperto per evitare che si insabbiasse nelle secche di un’inchiesta che, tanto per cambiare, aveva preso la strada sentimentale, una «storia di corna», dopo aver imboccato quella del delitto interno alla comunità. Rostagno aveva individuato il tavolo di lavoro di mafiosi e impresari, quello in cui ci si spartiva gli appalti, aveva messo il naso nella massoneria trapanese, tirata su non solo dai mafiosi, ma anche da Giuseppe Mandalari – il “commercialista” di Riina – e frequentata da Gelli. E di quegli incontri con i massoni aveva messo al corrente i carabinieri, ma il verbale di quelle dichiarazioni non fu trovato durante il processo, nonostante fosse evocato da un giornalista. Si reperì dopo, in un archivio del Comando dei carabinieri, a quanto pare in un fascicolo per il furto di un motorino.

Ma Rostagno, a Giacalone, serve anche per altro, forse per sostenere il punto centrale della sua relazione. È la figlia di Mauro, Maddalena, a osservare durante un processo che il padre aveva deciso di fare il terapeuta, ma non dei tossicodipendenti, quanto della città. «Si era reso conto che Trapani era un territorio drogato […] c’era una società civile che stava morendo per la sottomissione a quei poteri». Già, l’ossequio dovuto o voluto al bisturi dei Messina Denaro e dei loro sodali di sempre, la droga del potere e del bisogno. C’è una società civile che deve riprendere coscienza delle proprie responsabilità, a Trapani come altrove, sostiene Giacalone, attraverso una forma di giustizia riparativa, chiedendo scusa ai famigliari vittime di mafia per la nostra disattenzione, per il nostro tiepido senso di responsabilità. Una società civile che ha tratto, per bisogno o per complicità, vantaggi dall’amalgama torbido sin qui descritto, che non fa sentire un “coro” di protesta davanti al problema mafioso. Una società civile a cui non giova, però, un’informazione annacquata da leggi che imbavagliano la notizia, che impongono al cronista il silenzio sui nomi – accanto a colleghi che raccontano verità rovesciate – e a cui non giova neanche un apparato giudiziario che a Trapani come a Milano, prima di dare la caccia ai malviventi, deve dare la caccia alle risorse mancanti. No, non abbiamo debellato le mafie.

Giacalone, tuttavia, non vuole congedarsi dagli ascoltatori consegnando solo dei «momenti di depressione» e aggiunge che quel territorio produce anche cose buone, dal riscatto di una certa società civile – opposta a chi non vede o non vuole vedere – all’impegno di una Chiesa meno connivente o silente del passato, anzi attiva sul piano del sostegno ai bisogni cittadini delle periferie graffiate da Cosa nostra, al costante intervento di Libera sul territorio. Giacalone chiude con una nota di speranza, dunque, prestandosi alle domande dei docenti e salutando, poi, un pubblico a cui ha mostrato con ricchezza analitica che cosa voglia dire raccontare il proprio presente là dove, a Trapani come a Torino, il racconto si preferisce drogato, camuffato, capovolto o, al minimo sindacale, dai toni bassi.


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